– Sono stato al Teatro dell’Orologio a vedere Lulù, Ruud e le altre di Emanuela Cocco con Cristina Aubry e scenografie di Cinzia Iacono. I primi dieci minuti ho avuto difficoltà ad entrare nella storia, le citazioni musicali tagliate con l’accetta mi avevano innervosito, il personaggio IO narrante mi era sembrato un po’ artificiale, quasi una metafora di un personaggio. Poi, quasi per caso, IO poggia sul tavolo un libro di Simone de Beauvoir. Più tardi colloca strategicamente ai lati del palco due casse di libri, da cui emergono titoli come “A cosa serve l’arte?” et similia. Sembra quasi troppo, ed invece è il segnale che stiamo entrando attraverso un sipario, come un velo d’acqua che copre l’antro dietro la cascata. Di colpo siamo lì, nel centro del freddo, in quel luogo del cuore femminile in cui un uomo, per quanto grande sia il suo amore, non sarà mai capace di arrivare. Quell’immenso pianeta di dolore e solitudine, che noi maschi sappiamo a malapena intuire, in cui i danni dell’educazione maschilista, i disastri dell’educazione emancipata, l’eccessiva presenza di riferimenti autoritari e non autorevoli che implicano la rinuncia alla felicità, la totale assenza di una educazione all’amore, sostituita con un’educazione al sesso ed alla sottomissione, che si sostituiscono così alla capacità d’amare e rendono una donna irraggiungibile, inamabile, insopportabile e proprio per questo adorabile e disperatamente amata o odiata, in modo totalizzante, tutto ciò crea improvvisamente una realtà doppia: da un lato la certezza di una sera in cui le donne, tutte meno una, la Rossa, vivono la libertà della loro tristezza ed eroica desolazione. dall’altro l’incertezza di una felicità impossibile, che infatti viene tradita ed infradiciata dal temporale notturno, di un amore che riscatti l’infelicità, l’incapacità, l’incomunicabilità, l’inaffrancabilità. Cristina Aubry è commovente, specie nei toni, nelle movenze, nelle pause. Si avrebbe voglia di correrle incontro e tenerla per mano, ma non come un’amante – come una sorella persa nel buio di una non-famiglia, sola, abbandonata. Le due conviitate assenti, la ruvida Ruud e la rorida Rossa, delimitano la prigione in cui la donna IO non riesce più a muoversi, limitata da esempi di freddezza e calcolo (la Rossa), di freddezza e rinuncia (Ruud), mentre il suo cuore trabocca, come dice nella frase finale della scena finale, “Hai ancora tanto amore da dare”. Mai banale, mai falsamente intellettuale, mai leziosamente pasoliniano, mai affettatamente vuoto come Di Carlo, mai insopportabilmente ironico, Lulù, Ruud e le altre è un inno alla vita cui abbiamo rinunciato, da donne mancate, per destino, educazione, stanchezza, umiliazione. All’amore che noi uomini non scopriremo mai in loro, per pigrizia, paura, arroganza, per mancanza di educazione e, perché, soprattutto, di chiavi che ci mostrino questa parte del cielo, come ne costruisce Emanuela Cocco, il mondo purtroppo ce ne ha offerte pochissime, davvero troppo poche.

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