Mio papà era molto amico di un grandissimo musicista, Franco Altissimi, che aveva un negozietto di articoli musicali in Via Baldo degli Ubaldi. Vendeva anche dischi, ma poi aprirono un enorme discount a nemmeno 50 metri da lui, Discoland, e Franco vendette gli ultimi dischi che aveva, ed alcuni li regalò a papà, che li desse a me. Erano quattro: un disco degli America, uno di Emerson Lake & Palmer, uno dei Jethro Tull (cose che già amavo perdutamente), ed uno di una band a me sconosciuta, i Bread. Quando la puntina arrivò ad “Aubrey”, ero già commosso. Ma questa canzone mi parve profetica. Avevo 15 anni e lo raccontai a mia madre, che fece una smorfia, per evitare educatamente di ridere, come farebbe chiunque di noi al proprio figlio, che ti spiega che lui inseguirà invano, per tutta la vita, una donna che probabilmente non c’è, sperando un giorno “di essere più vicino a lei che a me”. E invece. Oggi, stanco dopo tantissime ore di lavoro, ho imparato a suonarla. Ora che la condanna è divenuta esecutiva, bisogna guardare in faccia sé stessi e ciò che noi stessi abbiamo fatto di ciò che la natura ci aveva regalato. Un po’ di malinconia, perché una volta in più riconosco che Dio punisce i propri figli, a volte, ascoltando le loro suppliche. Ce l’ho fatta. Lei continua a non esistere, io ad essere alla ricerca convulsa e compulsiva, e la vita se ne va. Bravo. Però sono riuscito ad essere sempre lontano da me stesso. Almeno questo.

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