– Fra ieri sera e stasera ho visto una serata su “La Divina Commedia” a Ladispoli e poi il “Gobetti, con arido amore” di Emanuela Cocco, Claudio Di Loreto e Francesca Guercio a Tor Pignattara. La prima considerazione da fare è che mi pare una volta di più dimostrato che esista intorno a Roma un circuito di cultura indipendente (NON alternativa, per favore!) di grande valore ed esteticamente bello che è completamente al di fuori dal bagaglinismo, dal lecchismo di destra e di sinistra, dai salotti, dal totalitarismo estetico collettivista, dal pietismo religioso. Di questo circuito intravedo la sua principale debolezza come la sua vera forza. Viene poca gente, ma un gruppo di persone che si conosce e si stima. Incontri sempre gli stessi visi. Può essere frustrante per gli artisti, ma solo finché queste attività resteranno scollegate. Mi pare che tutto sia legato al luogo più che alle produzioni: i Centro Sociali più interessanti attirano in quanto tali, spesso congiuntamente alla loro collocazione geografica. Ladispoli, ad esempio. Il Teatro di Via Vilnius, una stradina di case estive dall’aspetto abusivo e comunque collocato alla perfiferia brutta della periferia malinconica di Ladispoli, che a sua volta è una periferia strangolante di Fiumicino e Casalotti, che a loro volta sono borgata alla periferia di Roma. Il Teatro è bello. L’edificio non lo è, potreste credere che si tratti di un baretto di spiaggia di Ovunque-sul-Tirreno. Ma l’atmosfera dentro è diversa, nonostante il freddo e l’umidità. Si respira un calore diverso, non quello pasoliniano che ha stufato tutti, specie perché gli imitatori d’oggigiorno sono insopportabile. No no, il Teatro, collegato idealmente ad una trattoria veramente buona (nauticoeast.eat), è di un colore tenue ed avvolgente, chi ci lavora non alza la voce, ma ride di cuore, con lo stomaco, con un’espressione di solitudine malinconica piena non solo di umanità e di consapevolezza, ma anche di certezza e di affetti forti – una cosa che in Italia ho visto essere purtroppo quasi sempre escluiva proprietà delle donne. Io lì ci andrei a suonare gratis solo per l’orgoglio poter raccontare di averlo fatto. La serata su Dante è stata emozionante. Prima di tutto perché in mente se ne ha il tragico numero da avanspettacolo realizzato da Benigni. Invece Marta Scelli, un esile fuscello di donna, piena di un tremore catestematico che promette battaglia, la Commedia non solo la ama davvero, senza essere leziosa e saccente, ma la sa a memoria e la vive. Non sono in grado di valutare quanto sia brava tecnicamente un’attrice, quindi posso solo dire che mi ha impressionato per la sua calda mancanza di tensione affettiva – che mi pare di percepire sia una qualità in quella professione. Lei c’è e non c’è – mentre Benigni c’è talmente tanto da rendere aggressivi dopo tre minuti di grida inarticolate e di ripetizione di sempre le stesse frasi vuote sul patriottismo veltroniano e battute non spiritose. Marta Scelli la vedi nel silenzio e nel tremore, nell’aprirsi degli occhi, a volte, di fronte ad un’emozione colta nel testo. L’attrice la vedi nella spiegazione minuziosa ed appassionante del contesto, dell’attualità della Commedia, del rapporto complesso (è la parte che mi è piaciuta di più) fra ira bestiale, ira giustificata ed ira divina. Marta Scelli mi ha fatto percepire una quarta ira, quella rattenuta dell’intellettuale stanca ma ancora piena di presenza, di energia, di cose da dire, di anelito al raggiungimento del mistico nella descrizione del quotidiano, altrimenti così umiliante. Ed è in questi momenti che Marta Scelli, a mio modesto avviso, raggiunge il cuore delle ragazze che ascoltano, e lo fa con timidezza, senza darsi, senza intrufolarsi, senza imporsi, e loro ridono di nuovo, di cuore, di stomaco… che bello… e mentre l’attrice si arrampica sui peli delle gambe di Lucifero alla volta del sole, le sue grandi mani, finalmnente libere dal torcersi convulso della prima parte dello spettacolo, si aggrappano al sole e ci tirano su con lei, come se si potesse evadere da quella periferia senza uscirne mai, semplicemente facendo il contrario, andando giù ed ancora più giù, fino ad oltre il cuore del suo fondo. E poi una stanchezza enorme, la sua, impersonale ed eterea. Che bello.

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