Chi mi conosce, sa che non vado quasi mai al cinema, perché non riesco a mantenere la distanza tra il film e la realtà, faccio confusione. Guardo volentieri film in bianco e nero, perché non mi fanno quell’effetto, ed i film che parlano di fatti realmente accaduti. Ho amato tre film sopra tutti gli altri: “Mary Poppins”, “Big Fish” e “Palombella Rossa”, ma non serve spiegare perché. E poi, per anni, ho amato il lavoro di Francesca Archibugi. “Mignon è partita” è un capolavoro insuperabile sull’inizio dell’adolescenza maschile, scritto da una donna con un’empatia delicata, un sorriso dolce, e quello strazio inutile che provammo, perché non avevamo nessuno che ci spiegasse. Poi è arrivato “Verso sera”, un film che posso guardare solo piangendo di nostalgia, di dolore, di perdita, specie dopo che – per puro caso – ho avuto la fortuna di incontrare e stringere la mano (in un’occasione pubblica) a Sandrine Bonnaire, ed ho pensato che fosse la somma di tutto ciò che di meraviglioso una donna potesse rappresentare, prima di tutto l’inarrivabilità. Dopo questi due capolavori sono arrivati film piacioni, insopportabili, superficiali, di cui non ho voglia nemmeno di fare il nome. Dopodiché, Sara Buzzurro mi ha trascinati a vedere “La pazza gioia”, un film di Virzì, ma di cui la signora Archibugi aveva scritto la sceneggiatura. Un film molto bello, su cui ho già scritto. Sicché oggi ho preso coraggio ed ho visto un suo film di due anni fa, “Il nome del figlio”. Non è un capolavoro eterno, ma è una descrizione disperata della Roma di oggi, quella che si nasconde al Mandrione in un appartamento ristrutturato, che ancora ha i soldi in tasca, davvero non si sa come, e che vive segretamente, chiusa nella comitiva di quando si era bambini, affogata in una serie di bugie, di cose non dette, di pregiudizi costruiti in quegli anni 80, che tanto hanno fatto male all’Italia, e di cui scontiamo solo oggi, veramente, i danni incurabili. Ad uno sguardo superficiale la morale del film è che solo la figura della coatta è vera, sincera, profonda, vincente. Ma chi si ferma lì, non vuole capire nulla, ed è questo il vero tema del film: è un film dedicato ai Romani che si rifiutano di vedere e di capire. Che sono convessi, chiusi sulle proprie pappole, la propria superficialità, i sentimenti finti, le debolezze “vendute” come pregi, la sconfitta rappresentata o come i Cesaroni, o con la spocchia della nobiltà decaduta, che si mischia col popolo solo per cercare di mantenerne le distanze. E invece no. Francesca Archibugi ci dice un’altra cosa: che ciò che manca (e che trionfa) è l’attenzione, è il vedersi, è abrogare la validità delle proprie prigioni difensive. Sono andato via da Roma, ma porto dentro quello steso male che hanno tutti coloro che sono nati lì: coatti sempre, buciardi e sbruffoni, piagnoni e vittimisti, che non ti accettano se non fingi di credere alle loro invenzioni, con cui si ricattano l’un l’altro. Sylwia Syatkowska, lo sai, sono uno sbruffone anch’io, e sono dovuto scappare dalla mia ombra. pensavo che 30 anni di lontananza fossero sufficienti. Non era vero. “Il nome del figlio” di Francesca Archibugi indica una strada diversa dallo scappare. Non credo che questa soluzione faccia al mio caso, perché non conosco molte romane o romani che siano disposti a rompere quelle catene, ed io stesso sono molto pigro e pessimista, e soprattutto pigro, pusillanime e pessimista. Ma il film dovete vederlo, e guardare oltre la trama, considerando quella famiglia come un’unità, un solo corpo che da venti anni si è chiusa in una gabbia per paura di essere vista, per paura di non essere vista, per paura di vedere. Questa è Roma. Pigrizia e paura. Pigrizia e paura. Una bugia lunga tre millenni. Questo bellissimo film la dice, se fate attenzione, e senza sfottere o megalomaneggiare.

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