Era un sabato di 17 anni fa, ma non ricordo il mese, solo che c’era il sole ed era inizio estate. Kerstin ed io eravamo a Zurigo e lavoravamo alla Wochen Zeitung, abitavamo in una stanza sporca e triste, ospiti di un amico comune, perché non guadagnavamo abbastanza per un appartamento nostro e comunque nessuno dei due aveva i titoli per chiedere il permesso di soggiorno in Svizzera. Kerstin si era trasferita controvoglia, ma io volevo tornare a lavorare sul serio, in Germania era divertente fare politica, ma dopo aver lasciato Radio FREI non avevo nessun progetto interessante da sviluppare, nessuna speranza di mettere insieme abbastanza soldi per vivere tranquillo. Ma c’era di più. Dopo due anni, la storia tra Kerstin e me era già finita, e nessuno dei due voleva ammetterlo. La differenza è che per lei andava bene così, e per me no. Sentivo la vita che mi scivolava tra le dita e nessun passo in avanti, solo ansia, giorno dopo giorno, per la noia, l’ambizione frustrata, ed un ambiente, al lavoro, di gente che disprezzavo per mediocrità e che poi, nei mesi successivi, si comportò con me in modo inqualificabile e schifoso, dandomi una delle più grandi delusioni che io abbia mai patito ed insegnandomi una lezione che non ho più dimenticato: i mediocri sono velocissimi ad innamorarsi di te, apparentemente, ma ti spolpano con eguale rapidità e non ti danno nulla. All’inizio sono concentratissimi nel farti piacere, più tardi nel distruggerti, perché non riescono a controllarti. Allora ne ho sofferto, oggi mi sembra una ferita necessaria, che mi ha fatto bene capire che avrei dovuto misurarmi con quelli più bravi, e non con le mezze calzette. Ero stupido, timido, insicuro ed al contempo vanitoso, quando venivo giudicato mi agitavo. Bambinate, peccato, avrei potuto vivere meglio. Avevo compiuto 40 anni da un po’ e sapevo: adesso o mai più. Non sapevo ancora che di lì a pochi mesi sarebbe venuto l’11 settembre, l’attacco alle Torri Gemelle, e la mia vita, la mia carriera, la mia percezione di me sarebbero cambiate per sempre, dandomi la forza per vincere tantissime paure, e restituendomi la voglia di correre – con la conseguenza che, in poco tempo, la mia nuova rincorsa rese la vita insieme a Kerstin una triste burletta, finita malissimo. Semplicemente la lasciai indietro, come una scarpa abbandonata, pur portandomela appresso, come un gioiello costoso ed inutile, bello da vedere e per cui non avevo più nessuna empatia. Le ho fatto inutilmente del male, e ne ho fatto altrettanto a me, perché ci sono voluti altri otto anni da incubo perché finalmente lei prendesse le sue cose e se ne andasse via. Per giunta, senza che io capissi i miei sbagli tragici, che ho capito (purtroppo) solo molti anni dopo. Come direbbe Mara, prima di capire dovevo assolvere il compito che mi avevano dato i miei genitori nell’infanzia. Quando l’ho raggiunto e superato, dieci anni più tardi, ho visto che non era la cosa giusta per me – ancora una volta: troppo tardi. Ma in quel sabato del 2001 avevo in testa ben altro. Kerstin ed io giravamo con il bus del giornale e discutevamo moltissimo, senza mai veramente litigare. Per fortuna, abbiamo sempre avuto gusti musicali e letterari simili, se non addirittura coincidenti. Uno dei ricordi più belli che ho è quello di noi due, abbracciati, sulla riva di un fiume, nel sud della Germania, ad ascoltare al tramonto la radio che trasmetteva un intero concerto di David Bowie. Il sole scendeva placido sul Reno ed io credevo che si potesse ancora salvare tutto. Quell’anno, proprio in quei primi mesi del 2001, avevamo scoperto una band gallese che aveva tirato fuori tre album, uno più bello dell’altro. Gli Stereophonics. Avevano una canzone, “Have a nice day”, che raccontava del loro primo tour in America, e di quanto si sentissero fuori posto. Kerstin mi spiegava perché, secondo lei, le cose andassero male tra noi, ed io le mentivo, perché non avevo il coraggio di dirle la verità, perché non credevo l’avrebbe capita, e non avevo più fiducia in noi. Gli Stereophonics dicevano che fosse ora di tornare a casa, e Kerstin mi spiegava che sarebbe stato meglio tornare a Lipsia, non importa se con pochissimi soldi, sarebbe bastato che io dimagrissi e smettessi di avere sogni di grandezza, che mi abituassi alla mediocrità. Parlava alla persona sbagliata, e pagò un prezzo altissimo, perché negli anni successivi ho vissuto come una palla di cannone sparata tra la folla, travolgendo tutto e tutti, me stesso compreso, ma raggiungendo un successo personale incredibile: prima pagina del Sunday Times, invito per un talk show a New York, poi Vancouver, e poi il mio nuovo mestiere, l’indipendenza, la ricchezza, la villa in Toscana – tutte cose oramai perdute, dimenticate, travolte dalla solitudine e dalla mia lentezza esasperante nel riconoscere che gli slanci, accompagnati da proiezioni, ti danno una forza sovrumana, ma ti lasciano poi quasi morto, come un’iniezione di droga pesante. Ed ora, che la mia vita è cambiata nuovamente, ma almeno la solitudine è consapevole, ed è una scelta, alla radio torna questa “vecchia” canzone degli Stereophonics, ancora ed ancora, ad ammonirmi, forse. O a salutarmi per sempre.

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