Ci vediamo nel solito bar, nel quale tutti ci salutano con un cenno d’intesa ed un sorriso, anno dopo anno. Tacciamo. Ho imparato che in certe situazioni non c’è nulla di più intimo. Mi dice che è stanca da morire, le rispondo che lo vedo. Aggiunge che io non ce la faccio più. Annuisco. Mi chiede perché sono venuto e mi avverte: Dire che ti ho chiamato io non vale. Rispondo: per cinque anni sei stata un’isola, ora affogo. Lei: avremmo dovuto allargare l’isola, abbiamo sbagliato. Scuoto la testa: per allargare l’isola bisogna che scenda il livello dell’oceano, ed invece sale. Tacciamo. Dopo un tempo interminabile, ci portano la nostra tisana, la sanno a memoria. Beviamo, lentamente, che scotta. Io: forse stiamo imparando. Lei: forse stiamo morendo. Vorrei raccontarle mille cose, ma dopo la morte della fiducia, l’entusiasmo ha in mano un mazzo di chiavi che non apre nessuna porta. Ci alziamo. Pensiamoci, dice. Ascoltiamoci, rispondo. Mi dà una botta improvvisa, fortissima, sulla spalla. Una tenerezza incredibile. Se non si apre con le chiavi, allora così. Poi sono tornato nell’incubo, ma almeno con il cuore gonfio.

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