Un mio carissimo amico, Franco Minucci, mi raccontava che vicino alla sua città natale, Marino, c’era un punto in cui la strada pareva in salita, ed invece fosse in discesa. Uno scherzo della prospettiva. Ebbene, in quel periodo giravo molto nella zona dei Castelli, spingendomi poi fino a Segni e Velletri, oppure ai paesi verso Nettuno. Sceglievo ogni volta un tragitto diverso, ma quella strada di cui parlava Franco non l’ho mai trovata, o forse non me ne sono accorto. Ma imparai a camminare da solo sotto la pioggia, oppure tra le foglie rosse dell’autunno. Ed imparai anche che queste cose si fanno da soli, che ogni altra presenza è uno strazio, non importa quanto chi ti cammina accanto possa essere vicino al tuo cuore. Camminare è l’unico modo che conosco per parlare veramente con me con serenità, con calma, senza bugie, leziosaggini, ipocrisie, scuse, infingimenti vari. Ero all’inizio del viaggio, speravo in qualcosa di indistinto. Nessuno di noi è capace di concepire ciò che non conosce, e quando immagina le cose più avventurose, alla fine si tratta di ciò che si conosce di già, colorato di un’aspettativa che viene da altrove, e che per cecità non siamo capaci di distinguere. Se abbiamo fortuna, ed io ne ho avuta, quella cecità ci porta a sbattere contro ostacoli di ogni sorta, che ti costringono ad imparare e rendono l’inconcepibile noto e arcinoto. In quel momento, o si prende distanza da sé stessi, e si allarga la prospettiva, oppure si continua per sempre a ripetere sempre lo stesso tran-tran. Una decina di anni dopo ero in Olanda, nella penisola di Tholen, e trovai quella strada. Non era quella descritta da Franco, ma era la stessa. Mi cadde dalla tasca una biglia di plastica di mia figlia Valentina, e quella se ne rotolò lungo il ciglio della strada. Verso l’alto. Mentre seguivo la biglia con lo sguardo, un grosso uccello si fermò a guardarmi. A me fanno paura gli uccelli, specie quelli piccoli, che mi danno la stessa sensazione di grossi insetti. Io guardavo lui, e lui me. Forse un fagiano, ho pensato. Per strada, come spesso accade, la sera, nelle strade di campagna che uniscono piccoli paesini olandesi, non passava nessuno, ed era il tramonto. In un istante, si alzò una brezza e tutto divenne rosso: alberi, prato, cielo, sole, e l’uccello non c’era più. A poche decine di metri, due ragazze correvano in bici lungo l’argine, che in quei luoghi è più in alto rispetto alla strada. Devono aver pensato che mi trovassi in difficoltà e gridarono salutano. Risposi allargando le braccia e sorridendo. Andarono oltre. Così salii sull’argine, con in mano la biglia di Valentina, e mi misi a pensare di quanto fosse dolce e tiepido essere lì, in una terra in cui nessuno poteva capirmi, in cui ero invisibile per tutti tranne che per disattente ragazze e fagiani. Nessuna preoccupazione, nessun appuntamento, nessuna tensione. Tra me e me canticchiavo una delle mie canzoni preferite, e le vibrazioni degli accordi mi scaldavano via via che la sera raffreddava l’aria. E poi il buio. Ma lì, dove chi scrive cerca un finale, c’era l’oceano, e l’oceano è così grande e fiero, che basta il suo fragore a spiegare ogni cosa. Difatti, di ciò che accadde dopo, non ricordo nulla.

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