Il sole irrompe da dietro il Monte Amiata, o chi per lui, e riempie tutto di quegli odori che mi ricordano davvero la prima infanzia. In strada grida la gente che si saluta, come più di 50 anni fa a Roma, ed in cielo c’è più traffico che in Via Merulana all’ora di punta. Guardo incantato questa metafora della mia vita. Angeli volteggiano e proteggono la mia fragilità, la mia allegra tracotanza, la mia alterigia. Angeli che mi vogliono bene, e che mi abbarbicano alla vita, e che sono così tanti da lasciarmi di stucco. Sicché, M., anche cambiando leggermente pista, non cambio mai. Posseggo paure terribili, pochissimi coraggi, ed una superstizione che mi convince che sarò vivo fino all’attimo prima di morire, e che come il Piero di De André avrò solo un momento per rendermi conto che sia finita davvero. Aggiungo quel dettaglio che ti spaventa tanto: la tenerezza, la complicità, l’affetto profondo, costruiti in sette anni di minuziosa intellettualizzazione, possono essere al contempo eterni e svanire in un battere d’ali. Investire nella solitudine per percepire più forte la contraddizione, è il tuo mestiere, non il mio. Ma hai ragione: mi sveglio, ed ho paura. Poi mi alzo e non ci penso più, ho troppe cose meravigliose e terribili che mi vengono incontro. Non sai cosa ti perdi. Peggio. Lo sai benissimo. Ma la tua paura dell’imperfezione, che non conosco (perché perfetto non esiste, è solo un sinonimo della morte), ti ha giocata. Io no. Tant’è che quando mi chiami scemo, e ti commuovi, mi commuovo anch’io, come il primo giorno. Ma ci diciamo entrambi marxisti. Marxisti immaginari. I peggiori. Soli come proteli – le uniche iene, che vivono sempre da sole. Ma buongiorno!

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