È una di quelle giornate di pioggia nera, tetra, incessante, metodica, come non ne ho viste più da tempo immemorabile. Forse il 1989? Guardo il prato e gli alberi abbandonarsi ad un buio anticipato, fatto di rassegnazione ed infinita modestia. Ascolto la “Fête des belles eaux” di Olivier Messiaens alla radio ed ho nelle orecchie e quindi nell’anima quel ronzio che non sai se è l’onda media delle frequenze, l’onda lunga della solitudine o quella aliena dell’eternità. Proprio nel momento in cui la melodia diventa ansiosa, isterica, elettrica, lei frena e scende dall’auto, tentando di aprire un ombrello. Niente da fare. La sento bestemmiare santi non ancora martirizzati per giorni non nati, vedo le sue scarpe riempirsi di pioggia e fango, e poi il colpo sulla porta, il tumturutum iroso sulle scale, lo sbuffo di rabbia e sollievo nell’entrare al caldo: “Se mi tocchi urlo!” Ho una tazza di thè fumante, gliela lascio sul tavolo, e mi lascio avvolgere dalla poltrona. Messiaens si è calmato, la pioggia torna pigra ed estranea, interminabile, lei tira su col naso. “Ci hai messo lo zenzero?”, annuisco. Sia lei che Messiaens sono ora un soffio, un sussurro, una percezione ultraterrena. Lentamente, come un’ombra, lei scivola fino alla poltrona e si sdraia su di me, per traverso. Ed ecco Messiaens che riparte pimpante. Lei dice: “Sembra Walter Carlos che piglia per il culo Bach”. Ridiamo. Sento il thè caldo che mi scende su un braccio. Si è addormentata. Piove senza fine. Ascolto Messiaens. Sono felice, così felice che mi tremano i denti, la bacio leggermente sui capelli. Sorride nel sonno. Bastava questo. Per giustificare tutta la vita, intendo.

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