Si è spento a Cesena, stroncato dal cancro, Denis Ugolini. Gli volevo bene, moltissimo, ma certamente non quanto tantissimi amici comuni, che hanno condiviso con lui una vita intera di lotta, di intelligenza, di appassionato pragmatismo. Paolo Foschi, Luigi Di Placido, Gianluigi Amadei, Roberto Balzani, Daniele Bertaccini, e potrei proseguire per mezz’ora. So bene, per le poche righe che ci siamo scambiati, che per voi si tratta di una tragedia irreparabile. Un vero disastro. Vorrei spiegare agli altri, che non lo conoscono, perché. Perché un ragazzo esile e misurato della Romagna è così importante per tante persone – e mi rifiuto di raccontare i motivi pubblici, che ce ne sono a bizzeffe. Denis rappresenta un tipo di persona come non ce ne sono quasi più. Un uomo il cui tratto principale è il senso di responsabilità, di appartenenza, di lealtà. Chiede scusa, con onestà, ma non ha mai chiesto di essere compatito. Lo spiego, perché la gente che conosco oggi, quelli più giovani, anelano essere compatiti e vivono in biotopi di disgregazione sociale in cui tutto è apparenza, vittimismo, ogni fastidio diventa “devastante”, ogni problema una “tragedia”, ogni confronto un muro insormontabile, di fronte al quale qualunque vigliaccheria, stupidità e debolezza è giustificata. Se senti loro, o le persone che sono loro vicini, non hanno mai colpa di nulla, sono sempre vittime delle circostanze. Invece Denis, senza proclami, senza grida, senza sbruffonate, è più solido di una montagna. Lui le circostanze le cambia, non ne piange. E c’è, con la calma e l’affetto, anche lì, nelle situazioni in cui è lui il primo a sentirsi in difficoltà. Persone come Denis Ugolini diventano famiglia perché ci sono a prescindere, sai sempre che li avrai a fianco, e farai fatica a capire quando saranno loro ad aver bisogno, perché hanno imparato a bastarsi, ad avere intorno a sé le persone “giuste”, e mantenere ciò nonostante una generosità saggia ed intensa, un amore per la comprensione intima delle cose e delle persone, una dedizione al dubbio ed alla costanza. Nemmeno la malattia lo ha schiacciato, come si vede dal testamento biologico che ha lasciato, e dal fatto che abbia sorpreso molti, andandosene alla chetichella, perché fino a pochi giorni fa ci parlavo di futuro, e sentivo solo la voce più stanca del solito. Mi cresce la rabbia. La rabbia che in questo mondo sia necessario confrontarsi con oceani di piagnoni che per paura di fare delle scelte si sono lasciati fare di tutto ed ora implorano l’assoluzione; di gente che credeva di fare i propri interessi ed alla fine, oplà, si è accorta di essere isolata e strilla e strepita come un bimbo viziato; di politici che guardano a tutto, tranne a ciò di cui sono responsabili. Invece Denis non c’è più, e non l’ho nemmeno salutato. Cieco che sono, maledizione. Imbecille pieno di me e della mia boria inutile. “La solitudine vera è di mancare a sé stessi”. Questa frase me l’hai detta tu, ad una Festa dell’Edera, dopo che come al solito avevo usato la mia intelligenza per scaricare rabbia e frustrazione, e non per costruire. “La strada la costruisci solo se hai ben chiaro dove vuoi andare”. Non so immaginare come, per coloro che l’hanno amato, sia possibile mettere in pratica questi insegnamenti. Denis è un uomo molto, ma molto migliore di me, che mi ha regalato stima ed amicizia – un bene inestimabile. Non riesco a non cadere nel patetico, ma ora mi calmo. Però devo smetterla di occuparmi degli altri cazzoni. Io, per orgoglio, appartengo a quest’altro mondo. Come gli amici che abbraccio, da lontano, con tanto affetto, in questo giorno così triste.

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