– Stasera “Veronica” al Teatro dell’Orologio, di Fabio Massimo Franceschelli e con Cristina Aubry. Un lavoro che stavamo aspettando tutti con trepidazione e che aveva già fatto discutere alcune delle persone che leggono le righe che scrivo. Chi si aspetta che, dopo aver visto la piéce, vi parli di Silvio Berlusconi e di Veronica Lario, resterà deluso. “Veronica” non parla di loro. Vengono citati come totem, appaiono più volte come possibili referenti, ma “Veronica” tratta di tre grandi temi che hanno pochissimo a che fare con questi personaggi: la vecchiaia, il giudizio e la morale cattolica, la schizofrenia come via di scampo da una vita in cui un Io si attendeva qualcosa che l’altro Io non é stato capace (o non ha voluto) vivere. La vecchiaia è un mostro che ha lo stesso colore che Veronica definisce il simbolo dello stupro: il bianco. Il bianco, che domina tutto il lavoro teatrale, sia nei vestiti che nelle scene che nelle luci che negli abiti, è vecchiaia, perdita di identità, una resa condizionata dal rosso dei colori spruzzati su una tela e del vino, contrappeso all’assenza dell’altro personaggio, in una trilogia dissociativa in cui accanto a Veronica il Vino ed il Giudice appaiono la vera traccia della narrazione, su cui Veronica intesse i suoi commenti, le sue emozioni, le sue grida, la sua onnipresente affettazione – un’affettazione così grande ed immanente da rendere veri e palpabili gli altri Io, che sembrano più veri e veridici. La vecchiaia ha già vinto, è già il castigo. Quando Veronica entra in scena l’omicidio è già stato compiuto, il plot è già passato, ora si tratta di elaborarlo. È come se Fabio Massimo Franceschelli, cone “Veronica”, avesse scritto una postfazione fortemente emotiva a diversi dei suoi lavori precedenti, che a volte sono stati giudicati (a torto, a mio parere) più freddi ed intellettuali. Veronica dice tanto, tantissimo, ma risulta più credibile quando cede, quando mormora la parola tabù: vecchiaia. Sono vecchia. O ricorda le corse in auto, il vento sul viso. Ora invece c’è l’assenza, la stasi. Siede. E dato che la vecchiaia ha già vinto, la piéce tratta del giudizio morale (fortemente cattolico) che Veronica traccia su di se. La frase migliore: “verremo ricordati come la feccia di questa nostra era”. Siamo noi tutti a dirla. Veronica lo spiega, spiega come ci si senta delusi in punto di morte, non importa come noi si sia vissuto, siamo sempre delusi. C’è sempre un giudice, che è quella parte dell’Io che si aspettava chissà che – ma senza formularlo mai – e che per anni ha visto e sottolineato impetoso tutte le nostre debolezze, i nostri tradimenti, la pigrizia e la pavidità, che ci racconta che siamo stati tirchi con l’energia vitale e quindi abbiamo perso l’attimo – e non sapremmo nemmeno dire come, quando e perché. In questo senso il personaggio messo in scena da Cristina Aubry è un tripudio di morale cattolica, ma anche di come Veronica, ora che è vecchia e vive serenamente la propria dissociazione, abbia poco rispetto e nessuna paura di questo giudice interiore, che per primo ha fallito, perché i suoi valori erano fasulli – fasulli come tutto ciò che è stato vissuto, tranne la giovinezza. Il giudice è scuro come la scena, odora di muffa, è gonfio e lento, non ferreo ed intransigente. A volte sembra quasi che quel giudice e Lui (Berlusconi o chi per lui abbia costruito la gabbia in cui Veronica si é chiusa così volentieri) siano la stessa cosa, l’immagine della stessa menzogna, dello stesso fallimento. Ma per fortuna, in questo scenario di tregenda, arriva e trionfa la schizofrenia – le goccie di vernice spruzzate a casaccio sulla tela che colano, e che diventano più volte metafora nel testo di Franceschelli ed ombra negli occhi di Cristina Aubry. La pazzia salva ciò che resta della nostra vecchiaia, ci convince di piccole falsità credibili ed accettabili, paragona le corna di una donna che, nella realtà, probabilmente era grata di non essere più l’oggetto degli appetiti sessuali di Lui, alla Muraglia Cinese: un momumento millenario, una cosa, quella sì, finalmente fatta per durare – anche oltre la vecchiaia. Dietro l’elogio della schizofrenia, implicita presenza nel Vino (che é una delle grandi costanti di Cristina Aubry quando mette in scena una parte di sé), che resta l’unico piacere fisico ancora genuinamente possibile, per cui non ci si sforza, non si finge, per cui si possono abdicare la dissociazione e la disperazione. Per me, che forse sono più vecchio di quanto vorrei credere, Veronica è apparso come una sorta di Hotel California in cui perdersi per non uscirne più. Per me, che sono più giovane di quanto temo, Veronica ha svegliato la rabbia del mio rifiuto, di quel mostro morale, moralista, bigotto, che teme la propria impotenza, che divora tanta parte della mia anima. Non bevo Vino, non parlo col giudice. Scelgo donne come Veronica. Che infatti promettono, per mantenere, che faranno una sola cosa nella loro vita apparentemente vuota: distruggere l’uomo. Me. Noi. Me tra noi. Una sentenza appellabile solo con la fuga nella misoginia. Terribile nella sua giustizia.

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