– E venne la sera in cui una parte di me, da cui fuggivo, mi raggiunse. Un pugno dritto nel cuore con due firme: Piero Brega ed Oretta Orengo. Non so cosa aspettarmi, temo musica etnica e vecchie ballate del tempo che fu. Invece ora sono così sconvolto che faccio fatica a fare ordine nei miei pensieri e nelle cose urgenti da dirvi. Per prima cosa: la musica. Canzoni nuove, molte delle quali stupende, cantate con allegria ed una tecnica straordinaria, testi profondi e pieni di umorismo, mai banali – insomma, non si applaude a noi stessi mèmori, ma ad un meraviglioso caleidoscopio di colori e tensioni, di emozioni e abbandono. La musica di tutta una vita, nuova, nuovissima. Piero ed Oretta sono riusicti a digerire nel canone romanesco ottocentesco il rock’n’roll, il calypso, il klezmer, il pop inglese, ci sono dei momenti din cui ti sembra di sentire Robert Fripp che lavora con i fratelli Giles sulla musica di Renato Rascel, altri in cui senti Degregori prima della nascita, altri ancora in cui i fratelli Nocenzi vanno ancora a scuola, e la chitarra di Rodolfo Maltese è l’abbozzo di ciò che Piero ha già cambiato, rivisto, fatto proprio. Mi accorgo che tutto nasce da noi, prima della musica nera, e ritorna in noi, dopo esserci bagnati sulle rive di Babilonia, del Tamigi e del Mississippi ed aver capito che noi c’eravamo prima, che siamo più stomaco e cuore di tutto. Anche quando nascono canzoni nuove. La seconda cosa: l’appartenenza. Ti sbagli Oretta, ci sono ancora quei festival. E la memoria va a Rudolfstadt, pochissimi anni fa, io sul palco con Carsten e Steffen e Frank, cantando Sag Mir Wo Du Stehst e mostrando il pugno mentre migliaia di persone ballano in coro con noi. E piango, Oretta, che quella canzone su Neruda me la ricordo. Non piango di dolore, ma per riconoscenza, e penso a noi al Festival sotto Francoforte a cantare “cuando se muere la carne l’alma busca su sitio dentro de una amapola o dentro de un pajarito”… Non è finita, Oretta, siamo noi italiani che abbiamo perso il contatto, che non ci chiamano più. Ma i nostri fratelli, le nostre sorelle, ci sono ancora, belli e strabelli e bellissimi come sempre. Anche se Tamara Danz ci ha lasciato. Anche se Rio Reiser non c’è più. Anche se i più famosi di allora si sono sputtanati. Ma ci sono altri, nuovi, veri come voi. Il mondo non finisce, si rinnova. La terza cosa: la gioventù. Certo, mi ricordo… Piero sul palco, giovane giovane, io a pensare che mai e poi mai potrò suonare con gente così in gamba, che resteranno per sempre lontani un milione di chilometri dal piccoletto de Primavalle che sono, che se non passa più il 46 non sa come farsi i dieci chilometri che lo riportano a casa. E tutto, suonare a Piazza Navona, la pizza a San Lorenzo, le ragazze stupende, altezzose e inarrivabili di Via dei Volsci, la tromba di Garibaldi, giocare ai coralli a Villa Pamphili, l’autostop d’estate, il sacco a pelo. Ma che fregatura, pensate: non sono passati che pochi minuti. Non invecchiamo mai, siamo sempre più belli. Mentre Piero ha il volto segnato dagli sbagli accettati e dalle fatiche quotidiane, Oretta ha l’allegria di una donna talmente bella da non mostrare nessuna età, ma solo splendore e allegria, allegria, allegria. Piero ed Oretta non sono la gioventù perché mi ricordano qualcosa, no no no… sono la gioventù ma perché sono l’autunno meraviglioso e struggente da cui rinasce la vita, la musica nostra, la passione politica, la voglia di andare incontro al futuro. Insieme, ancora adesso, fanno a stento trent’anni. Poi l’ultima cosa: l’amore. Quello sognato tutta una vita, fatto di condivisione, complicità, musica, passione politica, intimità, carezze senza toccarsi, un’allegria naturale e mai affettata, la gola libera nel canto che racconta la gioia di esserci. E se io quell’amore lì non l’ho avuto mai, è per i miei sbagli. Piero ed Oretta dimostrano che il sogno e l’ideale è vero, giusto, possibile, sensato. Nessuna invidia, anzi. Piero, ti prego, insegnami ad essere un cazzone infernale come te. Oretta, fammi capire da quale sorgente magica nasca quella gioia che ti inonda. Come per incanto, per due ore, la vita non conosce stanchezza, il passato è tutt’uno con il presente ed il futuro. E la vita, come il marinaio senza mare, la donna matata sia che trabaja che se non trabaja, come il barbone che fá la scala mobile alla rovescia, come noi, figli vivi di una madre bandita dal mondo di merda che c’è fuori… la vita trionfa. Se piango, non è per tristezza, ma per gratitudine.

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