Non ero ancora nato. Per capire l’incommensurabilità di quel dolore sono dovuto andare a Buchenwald personalmente, e poi vedere i filmati. Da allora ho imparato veramente cosa significhino le parole odio, pietà, fede. Odio per il genere umano, per quella parte di uomini e donne che, gonfi di cinico egoismo, sono pronti a far morire chiunque, specie se lo Stato (o qualche ministro in felpa) ti dà il permesso di godere della morte altrui. Pietà per le singole persone che affrontano torture indicibili fino a desiderare la morte come liberazione, che nel viso dei propri simili vedono il proprio strazio, l’indifferenza della cattiveria senza confini. Pietà è un’impotente tenerezza, il momento in cui il sollievo per non dover affrontare una prova simile crolla di fronte alla consapevolezza di quanto sia atroce ed incomprensibile ciò che ognuno di loro ha subito. Fede, perché da quando ho smesso di credere nell’uomo (clero in testa), per andare avanti, ho capito di amare la vita. Di percepirla come un dono e di credere alla ragionevolezza e sensateza della vita stessa. Non ho prove di questo, solo una grande fede. Ed ogni anno, quando arriva il Giorno della Memoria, vado in un certo posto che amo, e porto con me un foglio. Un foglio che mi diedero a Buchenwald, che era la lista degli “ospiti” accolti in una sola unica settimana di febbraio. La leggo a voce alta. Perché nella Shoah non vada persa l’identità di ciascuno. Nove milioni di morti è un numero. Provate a leggere la lista di nomi, perché ognuno di loro era esattamente come ognuno di noi. Sentirete il cuore esplodere dal dolore e dalla pietà. Proverete l’odio. E, spero, riuscirete a credere. L’uomo è capace di atrocità indescrivibili. Ma un altro uomo è capace di gesti pieni di amore ed assennatezza.

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