Un milione di anni fa, io cercai di convincere Daniele Bevar a scrivere un musical sul romanzo “I ragazzi della Via Paal” di Ferenc Molnar. Ovviamente, leggendolo, avevo sofferto per il povero Nemecsek, che, piccolo e macilento, diventa il grande eroe nella contesa tra due bande rivali di ragazzini e, vittima di un ennesimo tradimento ed umiliazione, muore di polmonite. Nel gettare via pagine di appunti raccolte nella mia vita, mi sono imbattuto in un figlio a righe, sul quale avevo scritto (peraltro in inglese maccheronico, a causa della mia ignoranza) un abbozzo di testo sul povero Nemecsek, stremato dalla malattia, che sente una voce interna che lo rimette in piedi e lo riporta sul campo di battaglia. Quel foglietto di nessun valore (c’è un limite persino alla mia autocelebrazione esegetico-narcisista), oltre ad essere oramai componente trascurabile dell’immondizia di un albergo romano, mi fa pensare sulle mie dinamiche cerebrali, e di quanto queste siano antiche. La prospettiva dalla quale guardavo il personaggio di Molnar era (è) quella del fratello grande, che dovrebbe fare qualcosa, e per un motivo sconosciuto non lo ha fatto – il che rende la sua colpa ancora più immonda. Mi viene da ridere a rendermi conto di quanto stupida e complessa al contempo possa essere una paranoia cui ho agganciato tutta una vita. Nemecsek non esiste, eppure mi carico di questa colpa, perché so che se io fossi stato in quel quartiere di Budapest avrei avuto paura a misurarmi con le due gang rivali, sicché penso il peggio possibile di me per una cosa che non ha alcuna relazione con la realtà. E per equilibrarla, paradossalmente, esagero una mia apparente qualità per potermi dire: “Sono un fallimento come fratello grande, ma so fare bene altre cose, perbacco”, salvo poi vedere che altre persone, di cui ho opinioni a volte buone, a volte cattive, ottengono risultati straordinari, visti dal mio punto di vista, apparentemente in modo naturale, magico, immeritato. In qualche modo ho sviluppato una follia calvinista, chissà da dove mai l’avrò presa. Ma il problema vero è altrove, logicamente. Non so chiedere, e mi circondo di persone (non solo, ma soprattutto) cui non posso chiedere, perché la risposta è comunque negativa, ed è accompagnata da un “come ti permetti”. Il NO, ovviamente, non mi piace, ma lo capisco e lo accetto, e non è sempre negativo. Ciò che faccio fatica a digerire, è quell’espressione “ma come ti permetti”, proprio mentre vedo che tutti si permettono e lo ottengono, persino, sicché mi sono convinto di avere una malattia dell’anima gravissima ed orribile, che da giovane affrontavo dicendo bugie, dissimulando le mie speranze e le mie ambizioni, reprimendo i miei sentimenti, ingrassando. Tutte bambinate imperdonabili, lo so bene, e so bene che proprio coloro che disprezzo di più sono quelli che mi fanno la lezioncina su come dovrei vivere. Combinazione, sono anche coloro che non ingrassano. Per lunghi periodi, chiudendomi a riccio, riesco a raggiungere una solitudine riposante e serena, ma poi, ogni tanto, mi scappa qualche frase, proprio quando sono più tranquillo e meno controllato, e si spalancano nuovamente le porte dell’incubo. Ogni volta faccio più fatica a ritirarmi nel mio spazio ed a chiudere porte e finestre. Il contrario di Nemecsek, che muore per essere “visto”, io vivo per essere “non visto”, e quando taccio vengo premiato. Mio padre e mio nonno direbbero: hai dei problemi di lusso, se avessi fame non avresti tempo per queste stronzate. Vero, sicché ho costruito una vita nella quale io abbia rinunciato a tantissimo, ma non al lusso. Nemecsek muore come eroe involontario del sottoproletariato urbano del 1910. Io vivo e muoio clandestinamente, in un lusso tutto mio (e consapevole), dal quale ho il piacere di scrivere di ciò che mi interessa e mi preme, e di avere voi a leggermi e – a volte – ritrovare frammenti di voi stessi nelle mie paranoie. E questa è una bellissima consolazione, un dono ed a sua volta un ulteriore lusso di cui voi mi fate dono. Andare a Roccastrada mi sembrava sufficiente per guadagnare una solitudine più solida, e più serena. Stasera ho commesso un errore di leggerezza e mi sono accorto che non basta. Probabilmente devo essere più coerente e meno infantile, perché io scrivo meglio di come vivo. Forse per questo amo tanto Pessoa. Vediamo come fare.

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