Vivo, meglio che posso, il mondo di oggi. Quello di “or ora”, immanente, che cambia già mentre vi scrivo, quasi impercettibilmente, e poche ore dopo mi accorgo che la quantità di cose accadute ha già sepolto e spazzato via ciò che era ieri. Ed anche noi, esseri umani, viviamo molto meno che nel passato, veniamo superati continuamente dalle circostanze, non siamo in grado di fermarci su nulla, spesso abbiamo pochi secondi per passare dalla valutazione epidermica alla proiezione, dalla proiezione alla consapevolezza, dalla consapevolezza all’analisi, dall’analisi alla tesi, all’applicazione di una decisione, quale essa sia. Una decisione che cambia la realtà, di cui siamo pienamente responsabili, ma su cui non abbiamo più il controllo. Per cui restiamo alla proiezione, e chi si è visto si è visto. Niente essenza, please. Così è più facile perdonare gli altri, perché ci vuole già tanta fatica a perdonare sé stessi, ignorandoci. Niente piagnucolii, faccio anch’io, come tutti, solo ciò che posso, e per il resto tiro a campare e spero di non aver combinato troppi guai irreparabili. Amen. Però rimane l’esigenza indirimibile di darsi un quadro di riferimento, delle spiegazioni, dei termini di orientamento. Perché la vita, diceva giustamente Giorgio Gaber, è come un’equazione. Al primo rigo sono pochissimi simboli, ma poi, errore dopo errore, diventa un disegno mostruoso ed interminabile sulla lavagna dell’esistenza, e solo la morte è in grado, in un colpo solo, di riportare tutto ad una soluzione credibile. X uguale a zero. Tra l’inizio e la fine quasi soltanto confusione, malintesi, bugie pietose, bisogni reclamati. Le nostre fragilità si uniscono a quelle altrui, si creano coppie di ammalati cronici, che almeno su un paio di punti hanno trovato una convergenza, solo che poi il mondo cambia ancora, ed i patti di ieri sono fuffa, imbroglio, come se noi partecipassimo alla circonvenzione di quell’incapace che abbiamo scelto di essere, perché siamo schiacciati dalla responsabilità di dover prendere le nostre vite nelle nostre mani, e rinunciamo pubblicamente a farlo, aspettandoci la comprensione e la compassione altrui, perché siamo una faccia tra miliardi di altre, uguali, tutti segretamente: x uguale a zero. Ma questo non basta. Forse era così anche prima, solo che io non c’ero e non ne ho né coscienza né contezza. Magari è solo la fretta, la precipitazione, ad essere cambiata. Magari. Ultimamente ho cominciato a pensare che il problema sia altrove. Oggi ci sono milioni di persone che, grazie a trasmissioni TV deliranti ed a social networks impensabili solo fino a pochissimi anni fa, hanno un volto pubblico, senza mai avere ottenuto un volto privato. Appaiono invece di essere, di modo che essere sia inutile, lento, superato, ottimizzato. Il fatto che di noi stessi si veda non chi siamo (troppi spettatori, dolore intollerabile) ma chi vogliamo apparire, è una rivoluzione della percezione di sé, perché il divenire pubblici ci fa diventare spettatori della nostra interpretazione. Tutti figuranti del Maurizio Costanzo Show, di Amici, dei giochi a premi per imbecilli, del Grande Fratello, di Un Giorno in Pretura. Fuffa. Abbiamo il diritto di crederci ciò che vogliamo, perché nell’effimero della rete, di noi si vede solo questo, e se qualcosa in più dovesse trapelare, possiamo immediatamente rinchiuderci nella torre d’avorio dei videogames, ed uscirne solo con la pazzia, con la follia omicida ed autodistruttiva. Niente più rischi, solo proiezioni consapevoli. Una volta uno si faceva bello per conquistare una ragazza, poi calava la maschera con gli anni. Oggi la distanza tra ciò che siamo e come appariamo è talmente immensa, da rendere il calare della maschera impensabile, meglio chiudere tutto e reiterare il nostro avatar. E siamo troppi, tutti allo stesso livello. Gente anche esposta pubblicamente che trucca in modo infantile il proprio curriculum è l’esempio migliore di un mondo in cui il Marchese del Grillo grida: Io sono io, ed io non sono un cazzo. Perché a livello globale, nessuno è qualcuno, siamo miliardi di visi equivalenti, di carriere ed amori finti, di desiderio di una sola panacea: poter rinunciare alle responsabilità. Oggi siamo tutti disposti a farci crescere le orecchie da asini nel Paese dei Balocchi e farci poi uccidere da Mangiafuoco per farci trasformare in tamburi. Così la colpa è altrui, e ci siamo divertiti almeno per una notte. Guccini cantava: “chi glielo dice a chi è giovane adesso, di quante volte si possa sbagliare, fino al disgusto di ricominciare, perché ogni volta poi è sempre lo stesso”. Non è più così. Il ricominciare continuo fa in modo che quasi nessuno sappia veramente come siano andate le passioni, i sogni, gli entusiasmi, l’impegno, l’attenzione, lo studio, l’applicazione. Oggi le coppie che funzionano sono quelle tra bambini dementi e padri (o madri) che fanno finta di ascoltarli, che li riempiono di contenuti fittizi, e poi restano insieme non alla donna o all’uomo in questione, ma a questa propaganda tra esseri inanimati. Lo stesso vale per l’arte, la letteratura, la politica. Troppi volti senza qualità, senza essenza, senza quasi più nemmeno l’apparenza, perché il ricambio è talmente veloce da rendere inutile qualsiasi approfondimento, anche il più superficiale. Recentemente ho visto una fiction con Vanessa Incontrada in quattro puntate. Un flipper impazzito, nel quale tutto durava qualche secondo soltanto, nessuna credibilità per nessun avvenimento, contatto umano, colpo di scena. Nemmeno i fumetti di Topolino sono mai stati tanto paradossali, basati solo su stereotipi e parole d’ordine. I personaggi fingono di soffrire e di vivere a velocità che sono completamente assurde, quasi nulla di ciò che accade è minimamente credibile. È come se il Barone di Munchhausen fosse divenuto l’unico modo di raccontare sé stessi a noi stessi, ed il resto mancia, che tanto non importa, e poi la velocità cauterizza la solitudine. La millanteria cauterizza l’essere insignificanti. Il fatto di divenire personaggi pubblici proprio perché nullità completa l’opera. L’umanità mi fa paura, e specialmente tutta. Quella che soffre travolta da una tragedia, quella che ancora non soffre, perché il temporale non è ancora arrivato (ma arriverà), quella che, esteticamente, considera il temporale acqua che cade dal cielo, e non vita, morte, essenza.

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