Ho appena finito di leggere “il posto” di Annie Ernaux, che in Francia è considerato un classico del ‘900, e sono ancora pieno delle forti impressioni che mi ha lasciato. Nelle sue pagine si racconta per sommi capi, in modo asciutto e non di meno affettuoso, della vita di un padre che, nato nell’estrema campagna normanna dell’inizio del XX° Secolo, si è battuto, a fianco di una donna forte e volitiva, per affrancarsi dalla fame, poi dalla paura e dalla morte, poi dalla miseria. L’io narrante è sua figlia, che con l’aiuto di una borsa di studio fa l’università, diventa maestra, sposa un uomo dell’alta borghesia savoiarda – e quindi perde apparentemente ogni punto di contatto con la famiglia d’origine. Per poi ritrovarcisi dentro con tutte le scarpe nel momento in cui questo padre, un anno prima della pensione, muore. Il libro è quindi scritto come una dolorosa rielaborazione del lutto, ed in quanto tale è un vero e proprio gioiello che vi consiglio di leggere. Il libro l’ho letto perché mi è stato consigliato dal Circolo di Lettura di Tarquinia, sito in una stupenda libreria-bar di cui ho dimenticato il nome, ma in cui ho passato delle belle ore con Luigi De Pascalis, la sua splendida moglie, il mio amico Alessandro Orlandi e la sua addetta stampa. Menziono questo fatto per farvi capire cosa stiamo perdendo con la sostituzione degli acquisti online: non c’è più nessuno a consigliarci libri che altrimenti non scopriremmo mai. La grande impressione suscitata da questo libro però è un’altra. Si racconta una generazione che aveva un terrore folle di essere “fuori posto”, di lasciar accorgere le differenze di ceto, di cultura, di consapevolezza. Una generazione che risparmiava, che si batteva per minuscoli eppure fondamentali miglioramenti dello stile di vita, che non dava nulla per scontato, che rifuggiva dalla politica e dalla letteratura come cose per cui sentiva di non avere nessuna percezione critica, ma solo un terrore antidiluviano, ancestrale, medievale. Gente che faceva le cose perché andavano fatte, senza pippe mentali, e che riusciva a superare fatiche e dolori che per noi sono semplicemente inimmaginabili. La parola trauma per loro non esisteva, come la depressione. Non sto celebrando il mito del buon selvaggio e nemmeno facendo della critica marxista da Bar Casablanca (ahò Gaber ce lo devo mettere sempre…). Ma questo paragone mi spaventa tantissimo, se confronto quelle persone con il proletariato urbano rozzo, incolto, volgare, schiavo, sottomesso, assassino, vittimista e brontolone che infesta la società europea di oggi. Sono molto snob, eppure so bene di appartenere a questa oceanica schiera di incapaci, di inetti, di carne da cannone, che era stata preconizzata da Roberto Vacca oltre 40 anni fa. Adesso che la crisi economica lentamente si avvicina, adesso che i governi iniziano ad ammettere che non ce la faremo, adesso che si accetta la riduzione drastica della libertà (la riforma della Costituzione voluta da Matteo Renzi, in alcuni punti, supera il fascismo di Benito Mussolini per distacco, come quando Coppi e Bartali si alzavano sui pedali e piantavano il resto del mondo in asso). Ora servirebbe una generazione come quella, una che “non ha bisogno”, come scrive Annie Ernaux. Noi invece abbiamo bisogno, sempre e comunque, e molti di noi credono erroneamente che la soddisfazione dei bisogni ci spetti di diritto. Non vi preoccupate, ci rieducheranno non con le bacchettate sulle mani (che siete riusciti ad impedire che lo facciano i maestri) ma a coltellate e fucilate, con la fame e l’emarginazione. Vi dico una cosa che vi parrà ridicola: ci salva l’amore, non quello borghese che finge di trasformare l’attrazione fisica in metafisica, ma quello che tiene unite persone che sono pronte a dare la vita per coloro che amano, con cui bisticciano, si accapigliano, ma sono il centro della loro vita e – quindi – del loro cuore malato. Chi sono? Magari non lo sapete nemmeno, dovete studiarlo alla scuola della vita che, come scrive Annie Ernaux, impartisce lezioni che sono marchi indelebili sull’anima.

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