Due settimane fa, a Roccastrada, abbiamo iniziato insieme a cercare un viottolo comune che ci permettesse di affrontare una montagna. In quei tre giorni insieme l’abbiamo trovato – e senza sherpas. Oggi, nemmeno due settimane dopo, già si iniziano a vedere i primi risultati, ci si vede per verificare le prime bozze, per analizzare la “pars destruens”, la cui direzione è chiara ed inequivocabile, ed iniziare a cercare soluzioni, scenari di salvataggio, rivoluzioni possibili, proposte sostenibili e realizzabili, azioni necessarie e dirimenti. Insieme abbiamo deciso di tenere segreto il progetto, almeno fino alla prossima conferenza a Roccastrada, che si terrà dal 22 al 25 giugno, proprio perché è così difficile mettere insieme le esperienze ed i presupposti di professionalità tanti diverse tra loro in un unico flusso leggibile di informazioni. Mi spiego: che le cose vadano male lo sappiamo tutti, non si può evitare di accorgersene. Estrapolare un punto malato del sistema, come abbiamo fatto noi, che valga come simbolo per il sistema stesso, nella sua interezza, è stato possibile. Ma il nostro presupposto comune è che sia tutto correlato: crisi della cultura, della politica, della società, della democrazia, dell’economia, della produzione, dell’ecosistema, della chimica e della farmaceutica, dei trasporti, degli Stati Nazionali, degli accordi internazionali, della pace. Oggi inizia la difficilissima fase due, delle otto previste, in cui dobbiamo connettere la descrizione del collasso di un punto nevralgico del sistema planetario alla descrizione di come questo collasso colpisca immediatamente ed irreparabilmente tutto il resto. Solo quando avremo fatto questo, insieme, ed avremo trovato la prospettiva, ovvero quel balcone sulla realtà, dal quale si vede il mondo andare a rotoli, in un caos in cui tutte le nostre antiche superstizioni sulle cospirazioni, sulla mente eccelsa che guida una confusione solo apparente, sulle “magnifiche sorti e progressive”, finiscano nella constatazione che il determinismo, una volta di più, non solo sia solo postumo, ma sia impossibile. Il passato è una terra straniera, scriveva Carofiglio. Noi viviamo in un’interconnessione di fattori che ha portato una parte del futuro, che non possiamo più evitare, ad essere già passato prima ancora che accada. Uno stravolgimento mostruoso ed innaturale che rischia di portarci all’estinzione. Gaber cantava: “Io se fossi Dio la Terra la vedrei piuttosto da lontano e certo non ce la farei ad accalorarmi in questo scontro quotidiano”. Sbagliava, ed è per questo che la sua generazione, come canta lui, ha perso. Bisogna allontanarsi per vedere bene la prospettiva, ma accalorandosi sempre più. Perché noi ci siamo. Ci siamo ancora.

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