– Le cose intense della vita ti raggiungono sempre per caso. Negli ultimi giorni il “mio” quartiere è inondato di coatti e fighetti per la Oktoberfest del Rione Monti – che orrore, quanta brutta gente, quanta birra, quella puzza di piscio malato che speravo di non dover avvertire mai più rientrando a casa la sera… e poi stasera, in mezzo a Via dei Serpenti, un palco con Giorgio Onorato… Giorgio Onorato non mi sta simpatico, è una versione nazionalpopolare di Nico, lui come Lando Fiorini e molti di questi cantanti della Roma che fu non hanno la qualità di Claudio Villa, ma gigioneggiano tra l’estremismo di destra mascherato e l’occhiolino alle bettole ed a Petrolini, ma senza il carisma, la grazia e l’autoironia di Gigi Proietti quando era più giovane e meno sputtanato e chirurgicamente ritoccato. Ma quando ha intonato “Cento campane”, il mio cuore si è sciolto di malinconia. Mi ritornano in mente le prime sere con la chitarra a Piazza Navona, ormai 35 anni fa, e tanti ragazzi che mischiavano il Barcarolo Romano con Crosby Stills Nash & Young, La Gita ai Castelli con Jesus Christ Superstar… la società dei magnaccioni non si cantava, perché era politicamente scorretta, ma Casetta de Trastevere, su cui ridevamo, colpiva lo stesso una corda nascosta e segretissima. Così stasera, quando Onorato l’ha attaccata, di colpo non c’erano più gli sfoggioni e sboroni di una Roma volgare che mi infastidisce ogni giorno di più, non c’erano più i burini rivestiti che parlano dialetto con l’accento calabrese. C’erano solo i romanetti con le polacchette – ti ricordi, Eddie? – e cantavamo tutti a squarciagola, ed i più vecchi (antichi), come me, avevano gli occhi velati di lacrime. Perché la propria città è parte del tuo sangue, ovunque tu sia nato ed ovunque tu stia vivendo. E’ l’uso strumentale di quel sentimento, che dobbiamo aborrire. Ma Roma, in qualche meandro della nostra anima e della nostra storia, è un paesotto di popolani malinconici e delusi, che non grida contro il Papa o il Re, ma canta il proprio fallimento predetto dalla sorte, temuto in sogno, e poi sopravvissuto nella prassi. Roma è sopravvivere e sperare di ricordarsi che – prima, ma prima prima prima – si vivesse persino.

Lascia un commento