Nell’autunno di 60 anni fa la Repubblica d’Irlanda era sprofondata in una crisi economica e sociale apparentemente irreversibile. La Chiesa Cattolica, da sempre vincitrice alle elezioni e d’atteggiamento profondamente fondamentalista (per motivi patriottici), aveva negato qualunque possibile progresso industriale, civile, sociale, stritolando il paese in un medioevo da incubo, con un’economia basata solo sulle rimesse degli emigranti, e sulla fame e lo sfruttamento da parte dei latifondisti. Sicché alle elezioni di quell’autunno, per la prima volta, i laburisti di Sean Lamass vinsero, e come prima cosa cercarono d’imporre una legge sull’assistenza ai malati ed ai minorenni, che venne bloccata dalla Chiesa. Ci vorranno ancora 30 anni per ottenere un atteggiamento diverso, e la nascita di una nuova Irlanda, moderna, solidale e competitiva. Ma nel 1958 qualcosa era cambiato. Nei pub iniziavano a fiorire le band di gruppi tradizionali, che opponevano il folk gaelico alla stucchevole e repressiva musica da chiesa. Nel 1962 nascevano i Ronnie Drew Ballad Group, che pochi anni dopo cambiarono il nome in The Dubliners, in onore alla meravigliosa raccolta di racconti pubblicata nel 1914 da James Joyce: era nata una vera opposizione culturale a quella cattolica, che poggiava le basi su un sentimento ugualmente patriottico, ma più vero, più libero, più fiero. E che cantava l’effetto liberatorio dell’alcool, in un modo che per noi parrebbe assurdo, ma che per gli irlandesi di quel tempo era un inno di liberazione religioso, politico, sessuale, culturale d’orgoglio ed identità nazionale. The Dubliners erano una leggenda, e con le loro ballate, quasi tutte ripescate dalla tradizione non scritta dell’isola verde più bella del mondo, diedero il via a tutte le grandi, meravigliose band che conosciamo tutti, dagli Horslips ai Pogues, in un crescendo di bellezza romantica e rabbia malinconica. Nel 1968 lanciarono questa “Whiskey in the Jar” (il whisky nel barattolo, e non più nella bottiglia), che era una ballata della fine della Seconda Guerra Mondiale (l’autore è sconosciuto), ripescata dai ricordi di chi, frequentando soldati americani, aveva assaggiato questa stravagante novità. Cinquanta anni fa, questa canzone divenne l’inno di tutti coloro che, volendo un’Irlanda libera e felice, gridavano basta all’oscurantismo ecclesiale, m non andando a cercare nell’utopia marxista, quanto nell’humus di una terra gonfia di ricordi e sempre umiliata, che si risvegliava da millenni di torpore. Fino al 1973, quando un irlandese di pelle nera, Phil Lynott, ed un bianco scappato da Belfast, Gary Moore, leaders di una band travolgente di nome Thin Lizzy, regalarono questa canzone al mondo intero, perché imparasse a gridare come urlano gli irlandesi, ad amare il vento e la pioggia come loro, ed a bere dal veleno della vita come se potesse cancellare la morte. Ascolto, commosso, e penso ad un ragazzo che nel frattempo è morto, bruciato come Phil Lynott, ed il mio tempo a Dublino, che non dimenticherò mai. Tiocfaidh ár lá, Paul, ed il mondo sarà migliore. Te lo giuro.

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