Ho conosciuto Paolo nel 2014. Un incontro casuale. Da allora, grazie a lui, sono nate un sacco di cose meravigliose, un’amicizia ed una collaborazione, ed è riuscito ad insegnarmi un mestiere che nella vita non avrei mai sognato di fare – scrivere. Durante questi anni ho imparato a “non” conoscerlo: singolare, poliedrico, sottile, acuto, straripante, passionale all’eccesso, impaziente, spigoloso, maniacalmente rigoroso – ma alla bisogna un giullare con la palla al naso… un vero showman, eclettico, instancabile, pieno di sorprese. Un perenne contrasto tra dolce e salato che disorienta, un comodo divano sul quale riposare con serenità, ma che può, quando meno te lo aspetti, trasformarsi in un letto chiodato da fachiro, o, peggio ancora, in quello di uno psicanalista.

Ciò che ho di lui è l’indefinito. Sfuggente come un’anguilla, sì, ma intriso di un fascino alieno. Come il Paolo di questo libro, pieno di tante risposte, ma vuoto di quelle che forse non troverò mai. È un viaggio fantastico, come fantastica è stata ed è ancora la sua vita, anche se lui lascia intendere di sentirsi al capolinea. I capitoli hanno il nome di punti in ordine sparso sulla mappa del mondo, ed ognuno di questi somiglia ai blocchi di partenza di un atleta che spia la vasca successiva ma senza curarsi mai del traguardo.

Scorrendo le pagine si viene travolti dalla prosa armoniosa, torrenti di parole leggiadre che vorticano fragorosamente in un ordine inusitato. Non posso non pensare a Dance On A Volcano dei Genesis: una danza affannata su un crinale pericoloso – “[…] and the lava’s the lover who licks your boots away […]”. L’unico modo che hai di difenderti è quello di non fuggire, di affrontare la lava infuocata, con cieco coraggio e folle caparbia; perché i mostri, anche se li dovessi vincere, torneranno a condizionare il futuro. Ma non importa: hai dimostrato di farcela una volta e sai che potrai farcela ancora.

Il libro racconta vicende spericolate, sfolgoranti, folli, drammatiche. Ce n’è per tutti, e del resto è il racconto della sua vita. C’è la sua infanzia piena di casa ed antichi affetti, la voglia di fare sul serio giocando, la musica nelle strade, la coraggiosa lotta per le conquiste professionali; ci sono i viaggi turbinosi, racconti di infiniti paesaggi che, attraverso i suoi occhi incantati, sono fiabe raccontate all’inferno; e c’è da dire che Paolo è più abile con i demoni… ahimè, gli angeli lo mettono in difficoltà. E non mancano aneddoti divertenti e riflessioni di rara saggezza. Si ha davvero l’impressione di vederlo danzare sull’orlo di un vulcano che erutta, ed in controluce, chi legge, capisce che il mostro con cui non lesina fare i conti è proprio sé stesso.

La sofferenza fa frequente capolino: tagliente ed intensa, dolorosa. Paolo l’affronta con apparente razionalità, la supera con dignitosa noncuranza ed energia, sbattendo la porta alle sue spalle e trasformando in un attimo il presente scomodo in un passato già dimenticato. Poi, logicamente, il destino fa in modo che quel passato torni a confonderlo. Destino, dicevo? Ma anche no: qualche volta è lui a voltarsi indietro, rituffandosi in quelli che lui considera fallimenti, con una passionale voglia di riscatto, o forse con l’infantile illusione di riparare agli errori commessi. O magari è soltanto autolesionismo, il suo come il nostro. Con un retrogusto di amarezza cancellato dall’instancabile voglia di futuro.

In queste pagine, nelle quali si offre, senza alcun pudore, “nudo” fino in fondo, Paolo non manca di essere severo con sé stesso, fino all’eccesso – al punto da addossarsi le responsabilità di tutti i suoi insuccessi (li considera sempre troppo suoi), soprattutto quando è a tu per tu con l’amore. Un tombeur de femme che si trova in difficoltà nel gestire i sentimenti, che cerca con ostentato bisogno un rapporto che nel contempo osteggia con irrazionalità, finendo per spargere attorno a sé, dice lui, solo sofferenza: lo immagino bloccato in una gabbia che, fatto strano, ha la porta aperta.

Vive tutto con profondo dolore, perché senza dubbio ama sul serio e non sa quindi darsi pace, e non si arrende: nelle sue parole traspare con chiarezza la ricerca del riscatto, figlio dell’esperienza e dell’anelito per un futuro migliore. Una bella lezione: per quanto senti di essere sbagliato, per quanto tu abbia sbagliato, c’è sempre tempo e modo per rinascere. C’è un Proust alla costante ricerca del suo tempo perduto ed al quale si affanna ad assegnare un senso: a mio giudizio riuscendoci. Non vorresti mai arrivare alla parola fine, questo è ciò che conta, perché il suo viaggio diventa immancabilmente quello del lettore.

Scrivere un libro è soprattutto un esercizio al servizio della vanità. E guai se non fosse così, altrimenti le nostre librerie sarebbero vuote. Ma non può, non deve essere soltanto questo: mi piace pensare che ogni composizione abbia un ruolo taumaturgico per chi la scriva, e stavolta c’è il serio rischio che lo sia anche per il lettore.

Una volta, non ricordo più in quale contesto, Paolo mi ha detto: “noi siamo segnati dall’amore per la vita, e questo ci rende immortali”. Non ho capito subito il senso di questa affermazione. Oggi posso dire con certezza di aver compreso: del resto basta leggere come racconta di sé, ed ecco che l’amore per la vita si respira freschissimo e a pieni polmoni.

 

di Simone Coccia