Londra, piove, è un venerdì sera di inizio giugno del 1991. In un bar un gruppo di tarantolati in giacche di colori impossibili e visi erosi dal vento rovente di una vita spiegazzata bevono la qualunque e raccontano aneddoti difficili da decifrare. No, non sono loro, è che il mio cockney fa schifo, e poi parlano tutti in gergo. Sono lì perché Rick compie 40 anni, e suo fratello Tim, evidentemente più giovane, lo sfotte. Litigano. Rick cambia tavolo e si siede a pochi metri da me, che sto bevendo coca-cola. Mi chiede se riesco a vincere la tristezza con quella, annuisco. Lui mi prende il bicchiere, beve la metà in un sorso solo, storce la bocca e mi dice, con una voce roca: fa schifo, che ci hai fatto mettere dentro? Nulla, rispondo, ed aggiungo: qualunque cosa, il fantasma che ho dentro non svanirebbe. Mi guarda fisso, non sa se ridere o piangere. Mi abbraccia. “Do you still remember that?” Certo, è una canzone che ho ascoltato per anni, ogni volta che le mie crisi mi travolgevano. Aggiungo che la corsa continua, il mio motore muore, sono dell’umore giusto per farla scappare via. “Did she ran away?”. Annuisco. Mi mette le mani nei capelli. “Thank you boy”. Sono solo otto anni più giovane di lui, ma sembra che veniamo da due diverse ere geologiche. La sua band, a questo punto, già non se la ricorda più nessuno. Mette l’indice sulle labbra per invitarmi al silenzio e torna dai suoi amici. Tom (che nella band suonava il basso) gli chiede chi diavolo fossi. Richard Butler risponde: il fantasma che ho in me, è venuto a farmi gli auguri. Stanotte, in un’ennesima crisi, ho pensato a lui, che ora vive in America e fa tutt’altro. Ed al fantasma che è in noi, e non svanirà mai. Perché ne abbiamo bisogno – del fantasma e delle crisi, delle fragilità (che sono la nostra forza) e della consapevolezza che ci sono cose che uniscono gli esseri umani, che nessuno può chiamare altrimenti se non: destino. Tanti auguri, Rick, quest’anno sono 61, ma io mi ricordo di tutto.

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