La tragedia dei due scalatori morti sul Nanga Parbat mi ha dato molto da pensare. Si trattava di due persone estremamente esperte, due atleti, due persone che sapevano di essere sul punto di sfidare la morte, ma erano certe che ce l’avrebbero fatta. Non oso immaginare i loro ultimi istanti e credo che, come tutti, nel momento in cui avranno capito che fosse finita, avranno avuto terrore e solitudine, come tutti. Non voglio nemmeno esaltare l’idea di andarsene al top, senza aver dovuto pagare un tributo all’età ed essere stati spettatori impotenti del progressivo spegnarsi della propria gioventù, della propria vita, del significato che questa aveva nel grande quadro del tutto, come era quando si era più giovani. Perché siamo talmente tanti, che è difficilissimo essere riconoscibili e vivere questa unicità in modo sano e positivo. Dei due scalatori mi piace il fatto che già solo il perpetuare la sfida fosse un motivo per mettere in gioco tutto. Tutto? Tutto cosa? Siamo una generazione, forse la prima nella storia, che ha avuto la possibilità di fare qualunque cosa ci passasse per la testa, ed al contempo fosse sufficientemente radicata nel passato per poter ancora accedere alla conoscenza di cosa ci potesse piacere e cosa no. Siamo una razza che scompare, e dobbiamo imparare una lezione estrema, che nessuno ci aveva insegnato. Inutile sognare di essere il Marchese del Grillo. Non era un cazzo nemmeno lui. La vita è tantissime cose diverse. La morte è una cosa sola. La fine dell’universo. Perché, nella nostra opulenza, non siamo riusciti a restare parte del tutto, non abbiamo fatto nulla per migliorare la vita di chi viene dopo di noi, anzi. Abbiamo insegnato loro che noi non siamo stati capaci di imparare. La psicologia ci ha detto che va bene così. Daniele Nardi ha fatto, non detto. Il suo ultimo filmato mi riempie di sgomento. Niente bellezze panoramiche, solo tanta tanta neve, un’immane fatica, ed un sorriso pieno di amore per la vita e fiducia per il futuro. Un vero uomo.

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