Sono in un bar di Bologna. Il sole terribile di oggi è finalmente calato, si annusa la stanchezza nei pochi anziani che, come me, ansimano incontro all’agognato buio e sorseggiano colori freddi e diversi, tutti con gli occhi lucidi. Già. Perché c’è una TV accesa che mostra un concerto di Gianni Morandi e Claudio Baglioni. Lo so, so tutto, sono mesi che vanno insieme in giro a guadagnarsi la pensione, semmai ne avessero avuto bisogno. Baglioni ha 66 anni, Morandi 73. Fisicamente stanno bene entrambi, anche se il bolognese ha una voce migliore, è leggermente curvo, ma ha una presenza scenica che Baglioni, che da sempre è stato un mezzo bluff, nemmeno si sogna. Ragazze ventenni cantano lo stesso le canzoni del ragazzetto di Montesacro a memoria, stanno in piedi e gridano piene di felicità ed autocompiacimento. Noi no. Noi, qui in questo bar di mattonelle verde scuro e marroni, con le seggiole di un rosso spregevole ed i nostri liquidi negli occhi e nel bicchiere, mormoriamo le canzoni di Morandi. Perché capiamo che, in quella voce, che aveva iniziato cantando alle feste del PCI a 16 anni, quando vendeva bibite nel chiosco di papà, c’è una parabola incomparabile di tutto ciò che abbiamo vissuto ed amato. Non ci sono gli amori adolescenziali delle canzoni che tanti hanno scritto per rendere famoso Baglioni, ma poche righe, precise, di un uomo adulto, che ha affrontato tutto con un sorriso ed un’intelligenza empatica, mai sornione, sempre composto. Dalle cover di famose canzoni inglesi, tradotte in italiano con Migliacci, a tentativi di far parte di un movimento non giovanile o giovanilista, ma di consapevolezza popolare. Uno su mille ce la fa. Hai ragione, Gianni. Ma quell’uno ha trascinato con sé tanti di noi, che c’erano, ascoltavano, imparavano a memoria senza accorgersene, dall’Italia in bianco e nero dei Poveri ma Belli, agli anni della critica intellettuale e veramente popolare, che Pasolini cercò inutilmente di fondere in un progetto alternativo alla follia autocelebrativa e infantile degli extraparlamentari del 68 e del 77, cercando di raccogliere la crema in cima al latte, e trasformarla in intelligenza. Noi c’eravamo e non ci siamo accorti di nulla. Vi siete mai chiesti perché in Italia non c’è mai stato un vero movimento punk alla fine degli anni 70? Perché dalla bomba a Piazza della Loggia, la strage di Portella della Ginestra, la bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura in poi, in strada ci andavamo in tre generazioni, insieme. Nonno, papà, figlio. Non in tutte le famiglie, ci mancherebbe, la mia era altrove. Ma non dimentico un concerto di Guccini al Gianicolo, il mio fratellino Fabio sulle spalle, accanto a me un signore anziano che abbracciava sua figlia, e tutti e quattro con pugno alzato quando Francesco grida “trionfi la giustizia proletaria”. State calmi, Gianni Morandi non c’entra molto con questo. Me lo vedo molto più vicino alla prima meravigliosa frase della più bella canzone di Luca Carboni, “la maglia del Bologna sette giorni su sette”, una frase molto più vicina a ciò che siamo veramente, a ciò che eravamo più o meno segretamente. Caro Papà, ora piango, perché penso a te e Luciana Nunzi che canticchiate “Il mondo cambierà”. Tu sai perché, come lo so io. Entra un vigile urbano e chiede chi abbia parcheggiato da criminale sul marciapiede di fronte. Si sentono tutti colpevoli, persino io, che sono venuto a piedi. Perché ha rotto l’incantesimo, ci ha portato di nuovo il caldo terribile dell’oggi, di cui, per almeno un’ora, non vorremmo sapere nulla. La magia è finita. Come in Autogrill di Guccini mi alzo, pago, lascio due nichel di mancia e torno al domani. Solo uno su mille ce la fa. E invece quelli belli come noi, che sono tanti, senza voce ma cantando vanno avanti. Certo che è una citazione. Da un mondo che pare morto, ed invece vive e brucia dentro il cuore di tanti di noi. Morandi, ma non solo: per ognuno che cade muore una piccola parte di me. Augusto Daolio, Gegé Di Giacomo, Demetrio Stratos. Tanti ragazzi che, come noi, cantavano i Beatles e i Rolling Stones.

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