Stavolta vi annoio di brutto, ma ciò che ho letto sulla rete mi è parso talmente stomachevole… sicché, a modo mio, vorrei spiegare perché il puro pietismo per un artista che forse non è stato capito possa contribuire ad ucciderlo. La solitudine non è legata al successo. La solitudine vuol dire non essere visto per ciò che si è, essere valutato esteticamente, diventare una proiezione delle semplificazioni altrui, dell’incapacità di vivere dinamicamente. La solitudine è la figlia della pigrizia e della mancanza di intelligenza del mondo, sdoganata dalla propaganda dell’appiattimento culturale. Insomma. Poche ore fa, l’artista rock più importante (nel senso evolutivo del termine) dopo John Lennon e Jimmy Page è morto. Chris Cornell si è tolto la vita a soli 52 anni, in un momento in cui, per chi ha seguito la sua parabola ed amato la sua musica, non aveva senso farlo. Non si è ammazzato di droga o alcool, come Jim Morrison e Janis Joplin. Non ha avuto un incidente misterioso, come il suo amico Jeff Buckley o Gram Parsons. Non ha avuto una leziosa uscita di scena come Kurt Cobain. Non è stato ammazzato, come Sam Cooke o John Lennon – ma si è cancellato come Keith Emerson, perché (presumo) non capiva più come andare avanti. La storia del rock è una somma ed una sottrazione continua. Improvvisamente scopri qualcuno che ha imparato una lezione segreta da chi lo precedeva, e ci ha aggiunto qualcosa di proprio, altrettanto segreto, e la musica va avanti. Quando ero ragazzo, le riviste specializzate disegnavano meravigliosi alberi per spiegare come, partendo da questi o quelli, si arrivasse poi ad un risultato nuovo e spettacolare. Per spiegare Cornell, allora, bisogna partire da quella parte di Lennon che poi, estratta dallo skiffle, viene trasformata nel blues post-celtico dei Led Zeppelin. Da lì partono orribili plagiatori arroganti e beceri, come Lenny Kravitz, che ha costruito una carriera sull’inversione degli accordi disegnati da Lennon e George Martin. Oppure lavoratori precisi come Andrew Lloyd Webber – e che creano voci come quella di Ted Neeley. Oppure americanate bovaresche come Guns’n’Roses o Bon Jovi. Oppure il gelo psicotico e provinciale di Seattle, con tutto ciò che conosciamo: partendo dal Vaudeville, che lì incontrava Woody Guthrie, passando da Ze Whiz Kids, che sono forse gli unici ad avere una vera propria grandezza, prima di Cornell. Belli i Ze Whiz Kids, davvero belli. Questo gruppo glam riuniva già le fila di tutto ciò che il mondo aveva stupidamente disperso. E da lì sono morti i Soundgarden ed è nato il miracolo Chris Cornell: da John Lennon (la cover di Chris di Imagine e di Thank You è superata, per intensità, solo dalla versione di Buckley di Hallelujah), da Jimmy Page, da Robby Krieger, da David Gates. Ed infatti, tutti loro li ritrovate, ordinati e reinventati, in Cornell. Nei suoi accordi, nella voce, nella costruzione delle canzoni, anche quando sono apparentemente così diverse tra loro. Intanto, dai Queensryche in poi, a Seattle infuria una versione pop fastidiosa e furbetta del punk rivisitato dai cowboys e dalle Giacche Blu. Un paio di melodie intelligenti da Nirvana e Foo Fighters, ma Alice in Chains e Pearl Jam, mio Dio, vanno in direzione dei Metallica – country commerciale e tecnicamente scarso. Purghe per bambini che sono troppo pigri per emanciparsi dal punk, musica per provinciali benestanti che fanno fatica a rimorchiare le ragazze. Naturalmente non ho mai conosciuto Cornell, e magari, da ragazzino, era simile agli altri. Ma dal 1999 in poi, dalla pubblicazione di Euphoria Morning, i suoi testi lasciano capire che sono stati fatti, a piedi, nella polvere, tra sangue e sudore, milioni di chilometri di faticosa emancipazione. Badate bene, Soundgarden vira a pochi millimetri dal guard-rail di tutto ciò che disprezzo di Seattle. Secondo me perché, a quel tempo, Chris Cornell non aveva ancora incontrato Jeff Buckley e studiato Nick Drake e Jorma Kaukonen. E solo da allora in poi ha avuto il coraggio di portare avanti un’evoluzione della chitarra, proprio mentre EL&P, Police, Joy Division (ed ancora meglio New Order) si sono messi a studiare il basso, Chris Cornell scrive Can’t change me e Sweet Euphoria. Una nuova meravigliosa pagina si apre, tanti artisti iniziano a copiarlo. Fate fatica? Vi sembro esagerato? Allora ha fatto bene a togliersi la vita. Perché il gusto comune si è abbrutito al punto da impedire di percepire le sfumature che trasformano tutto. E se nel 1999 Chris usava ancora la seconda voce del beat, tanto cara a quelli di Seattle, in questi ultimi mesi, dopo il 2015, aveva fatto un altro salto di qualità importante, restituendo melodie belle e seducenti a costruzioni diverse, piene di citazioni. Preaching for the end of the world partiva da David Gates, ma Nearly forgot my broken heart porta ad una nuova sliding door. La melodia, il testo, Page, Morricone, Simon & Garfunkel, Buckley e Lennon. C’è tutto. Chris Cornell era pronto per chissà cosa. Una canzone meravigliosa, che ho ascoltato per un anno, in segreto, pensando a delle cose della mia vita che, giustamente, appartengono a me. Aspettando fiducioso il seguito. Invece no. Lui non c’è più. Anche lui se ne è andato. Ma vi prego, non ne fate un idolo da ragazzini, un bellone di provincia finto anima persa. Chris Cornell era un musicista vero, complesso, sorprendente, con testi intelligenti e convessi. Fatene ciò che volete, ma cercate di proiettare il meno possibile su di lui il vostro fallimento umano. Lo ammazzereste ancora ed ancora ed ancora. Lasciatelo in pace, adorate qualcun altro.

Lascia un commento