Mamma distingueva il mio umore a seconda della musica che risuonava in casa. Triste, se ascoltavo Elton John; Preso da qualcosa di difficile, se ascoltavo Frank Zappa. Appassionato e pensoso, quando sul piatto c’era Giorgio Gaber. Quando poi imparai a suonare la chitarra, Gaber era ciò che suonavo quando ero da solo. Mamma aveva visto che, se c’era da prendere una decisione, da elaborare una delusione, da spiegare una debacle, io ascoltassi come in un loop sempre la stessa facciata dello stesso disco. Per giorni. E mi prendeva in giro dicendo “anche oggi facciamo finta di essere sani?” Chi ascolta Gaber superficialmente, pensa che, dal puto di vista musicale, fosse banale e ripetitivo, come Bennato e De André. Falso. Non avete mai cercato di ripeterne gli accordi. E non avete mai percepito quelle musiche che accompagnavano i monologhi, che sembravano musica da ascensore, e non lo erano. Gaber era maniacale, provava migliaia di volte, ogni minuzia aveva una sua misura ed una propria ragion d’essere. Ieri sera, Leonardo mi ha fatto un dono talmente bello che non mi basterà tutta la vita per ripagarlo. Mi ha fatto cantare, avendo alle spalle, a suonare, lui e Luca Ravagni. Luca ha vissuto e suonato con Gaber per dieci anni. Quasi quattromila giorni. Qualunque cosa noi si suonasse, Luca aveva la versione vera. Quella del Signor G medesimo, e la suonava come l’aveva sempre suonata, in quel modo inequivocabile che un bimbo innamorato di un artista riconosce come la mamma distingue il proprio cucciolo piangere anche in una folla immensa. Quel bimbo non aveva mai osato sognare di poter, un giorno, cantare con Luca alle spalle. Ci sono cose che vanno troppo al di là della speranza per poter essere immaginate. Chi c’era, ieri sera, ha visto come ho cantato. Con la forza e la disperazione concentrati, quelli di una vita intera. Con la passione della consapevolezza del fatto che i miracoli accadono una volta sola. Davide Braglia, alla fine, mi ha coperto di complimenti, perché sapeva. Come me, nel momento in cui Luca aveva iniziato le note del motivo che introduce “Qualcuno era comunista”, aveva capito, per sé stesso, di essere in un tunnel del tempo. Dopo, a cena, quando eravamo tornati sulla terra, lui, Cosimo Postiglione ed io eravamo tramortiti. Troppa felicità, troppa emozione. Mamma, sbagliavo tutto. Non bisogna far finta di essere sani. Gaber sfotteva. Bisogna tornare al gabbiano, quello che nel Signor G aveva perduto persino l’intenzione del volo, quello della frase tremenda: “due miserie in un corpo solo”. Bisogna tornare indietro fino a lì, a riprendere i nostri bimbi per mano e dire loro: stai calmo, Giorgio scherzava, era giù di morale. “C’è solo la strada su cui tornare, la strada è l’unica salvezza. C’è solo la voglia e il bisogno di uscire, di esporsi, nella strada e nella piazza. Perché il Giudizio Universale non passa per le case, le case in cui noi ci nascondiamo. Bisogna ritornare nella strada, nella strada: per conoscere chi siamo”. Luca, mi hai regalato alcuni dei minuti più stupendi, inattesi e incredibili della mia vita. Leo, hai ragione. Torniamo sulla strada. Saltiamo dal tetto, prima che gli anni lo facciano per noi. Per quanto ne so, sono l’essere umano più fortunato del mondo, da che mi ricordo vengo ricoperto di doni ed affetto. E ieri c’erano queste due ombre, accanto a me, a dirmi che va tutto bene. Va tutto bene. Io, come persona, ci sono ancora. Noi butteremo tutto in aria, e stavolta sarà costretta a tenere conto del coraggio, la storia! Oppure no, ma allora lo faremo noi. Ciottoli sconosciuti, come diceva Daniele Bevar. Mai, mai, mai, mai, mai scordarci chi siamo e da dove veniamo.

Lascia un commento