Ciò che è accaduto stamani a Teheran, ultimo anello di una catena che passa per Manchester, Londra, Parigi, Nizza, e l’isolamento del Qatar, ci obbliga a modificare gli slogan che usiamo quando parliamo di terrorismo di matrice fondamentalista islamica. Gli assassini che hanno perpetrato l’attacco si dicono soldati di Da’esh. I parlamentari iraniani feriti – che sanno cose che noi non vogliamo vedere – gridano insulti contro Arabia Saudita e Stati Uniti. Stanotte, dimenticato da molti, è morto Adnan Kashoggi – l’uomo che, insieme alla famiglia Bin Laden, ha trasformato il deserto saudita in una cornucopia di denaro contante e nel centro pulsante (finanziario) del contrabbando mondiale di armi, di schiavi, di droga e di rifiuti tossici. Non ho la preparazione di Claudio Lo Jacono, e quindi esprimo la mia opinione con estrema prudenza. Intendo dire: vi espongo ciò che credo di aver capito, non ciò che credo sia una verità insindacabile ed immodificabile. Negli ultimi duecento anni sono accaduti in Asia alcuni fatti estremamente importanti che hanno cambiato totalmente gli equilibri già precari emersi dalla fine del Medioevo. La Turchia non è più un Impero, l’India non è più inglese ed è separata da Pakistan e Bangladesh, che ne sono fieri avversari. I popoli, dal Caucaso al Tibet, che nel corso del 19° secolo erano stati sottomessi militarmente dalla Russia, sono tornati liberi ed hanno costituito nazioni indipendenti. La Cina è divenuta la più potente potenza economica del Pianeta. Israele è nato e sopravvive, florido ed agguerrito, ed è persino divenuto il migliore alleato dell’Egitto. I Paesi in mano alle tirannie più efferate, come Iraq, Libia, e soprattutto Arabia Saudita, hanno destabilizzato la regione, travolgendo nazioni come lo Yemen, l’Oman, il Libano, la Giordania, la Siria, e persino la grande Persia (l’Iran) in un olocausto di morte e sofferenza, Hanno riunito a forza Iran e Belucistan, che si combattono da cento anni in una guerra di cui non frega nulla a nessuno. Solo l’Afghanistan è rimasto lo stesso casino che era ai tempi della Rivoluzione Francese, ma non è più il giardino fiorito che era allora, è solo un cumulo di macerie fumanti e l’incrocio tra strade di eserciti che vanno e vengono. Coloro che per noi sono una nebulosa indistinta, sono invece una galassia di pianeti che si odiano, pur dicendosi tutti musulmani. L’Arabia Saudita si chiama così perché, a partire dal 1926, Riyadh e la Mecca sono finite nelle mani del Clan wahabita Al Sa’ud, che scacciò quello hashemita del Clan Hussein, che comanda ancora in Giordania. Che coincidenza: ciò accade nel momento in cui le forze politiche europee in Germania, in Gran Bretagna ed in Francia scoprono la finanza come perno della politica estera al posto degli eserciti, decidendo di smilitarizzare l’Asia del “Grande Gioco” descritto mirabilmente da Peter Hopkirk, lasciando un vuoto occupato da tribù rivali assetate di sangue e ricchezza, e dando per la prima volta un ruolo VERO di politica estera alla potenza economica mondiale emergente di allora, gli Stati Uniti. Questa crisi di stabilità, in cui, per la seconda volta, le banche hanno il sopravvento sul commercio e l’industria, porta alla crisi del 1929 ed alla Seconda Guerra Mondiale, che segna la nascita del ruolo politico degli arabi sullo scacchiere mondiale e la fine (conseguente) dell’Impero Britannico. Dal 1948 alla morte di Gheddafi e Saddam Hussein, nonostante le guerre tra Israele ed i suoi vicini e le tragiche vicissitudini dell’Egitto e dei Paesi nordafricani, da Rabat a Calcutta c’è stato un equilibrio delicatissimo ma resistente. I Russi le hanno prese in Afghanistan, l’Iran ha buttato al mare la più grande e bella cultura asiatica ed ha ricominciato dal Medioevo (ma non so nulla delle forze che portarono al khomeinismo, scusate la mia ignoranza), il Libano cambia padrone settimanalmente, la Palestina viene usata come pallino in una partita a bocce in cui nessuno a Ramallah ha mai il turno a tirare. Ma tutto si teneva, perché Stati Uniti, Turchia ed Arabia Saudita erano d’accordo, ed i tiranni di Riyadh facevano i miliardi in America, facendo il lavoro sporco della CIA, dei Democratici e dei Repubblicani. Ma 300 anni di governo federale Stati Uniti ci hanno insegnato una cosa: se un Americano vede una cosa che funziona, la rompe. Se vede qualcuno tranquillo, lo offende e lo umilia. Se balena una possibilità di farsi male e far morire milioni di persone per nulla, la coglie al volo. La cosa più irritante di tutti, dopo vent’anni di miei rapporti professionali con cittadini di quel Paese, è che rifiutano qualunque responsabilità, è sempre colpa di qualcun altro. Gli USA ci hanno tolto le castagne dal fuoco nella Seconda Guerra Mondiale, ma il nostro debito di riconoscenza è da tempo estinto. Ciò che questo popolo barbaro, ignorante, superficiale, sciocco, corrotto, assetato di sangue, ha commesso in Italia e nel mondo, da tempo non è più perdonabile. E continuano. Non so quando sia successo, ma ad un certo punto gli Al Sa’ud, che sono criminali di campagna, hanno avuto una generazione di leader che era in grado di convivere con gli Occidentali e dettare loro le condizioni. Allo stesso tempo, ha iniziato a brigare per vincere quel Grande Gioco a cui nessuno li aveva mai invitati a giocare: estendere un Impero di beduini dalle coste atlantiche del Marocco al Mar Giallo. Nella mia modesta ignoranza, Al Qaeda e Da’esh sono questo: eserciti mercenari messi in piedi da lobby politiche e dinastiche degli Stati Uniti e dell’Arabia Saudita, che cercano di annientare l’Iran, di destabilizzare l’India, di cancellare Israele ed Egitto, di tenere a bada la Russia, di evitare che la nuova grande tirannia assassina, quella di Erdogan, raggiunga la forza necessaria per sfidare i Sauditi. Con l’Iran era stato facile, bastava armare l’Iraq. Ora tutto è più difficile e complesso. Ma fate caso alle coincidenze: per Da’esh gli obiettivi sono l’Unione Europea e l’Iran. L’Egitto, l’Iraq e la Libia. Israele, che è una nazione guidata da saggi e scaltri pragmatici, fa affari con tutti, Da’esh compreso, ed Eylat è divenuto il più grande porto franco del mondo, ancora più che Gibuti o Tangeri. Dunque? Dunque. Se ho ragione io, allora per sconfiggere Da’esh bisogna schiacciare la dinastia Al Sa’ud in Arabia e ridimensionare di molto l’influenza americana. Ma non ho idea di cosa possa accadere, se si dovesse ottenere un risultato del genere. Parliamo di milioni di persone, un oceano di rabbia, sete di denaro e sangue, di tribalismo al limite del cannibalismo, di razzismo totale. La Germania di Hitler era una mazurka, al confronto di costoro. Quando chiedete all’Islam moderato di opporsi a queste forze, non sapete cosa state dicendo. Peppino Impastato era uno. Folle, adorabile, coraggioso, straordinario. E Don Tano Badalamenti, in confronto a Doland Trump e Salman bin Abd al-Azīz Al Saʿud, è un allegrone, un compagno di merende paragonabile a Pacciani e Stanislao Moulinski in uno dei suoi più riusciti travestimenti.

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