Per pura coincidenza ho rivisto le immagini del terribile incidente che, il 10 gennaio 1971, costò la vita al pilota della Ferrari Ignazio Giunti. Aveva poco meno di 30 anni, era un ragazzo solare che avevo visto in alcune interviste e mi aveva colpito per simpatia. Non avevo ancora 12 anni, ed a quella età è facile trasformare qualcuno in eroe. Il ricordo mi addolora ancora oggi, ed a nulla serve dire che, in quegli anni, correre in Formula 1 o nel Mondiale Marche equivaleva a morte quasi certa. Mi addolora perché Giunti venne ammazzato da un cretino, il francese Jean-Pierre Beltoise, che aveva finito la benzina e, in mezzo al circuito di Buenos Aires, si era messo a spingere la sua vettura con l’idea di riportarla ai box. Nessuno lo fermò, nessuno gli disse nulla, nemmeno Manuel Fangio, che era direttore da corsa e sapeva benissimo che quella manovra fosse follemente insensata. Giunti uscì da una curva a quasi 300 all’ora alle spalle di un doppiato, che fece uno scarto di lato ed evitò l’auto di Beltoise. Giunti non fece nemmeno a tempo a vederla e ci esplose dentro, trascinandosi in una bara di fuoco per oltre 150 metri prima di arrestarsi. I soccorsi ci misero oltre un minuto ad arrivare. Beltoise se la cavò con un rimbrotto e tre mesi di squalifica, ma soprattutto disse alla TV che non si sentiva colpevole, che l’automobilismo non è uno sport da ragazzine. Il 20 maggio del 1973 accade di nuovo. Avevo iniziato a tifare per un ragazzo finlandese che correva il Motomondiale con una posizione in moto completamente diversa dagli altri – quella che oggi adottano tutti – e che vinceva (grazie al suo stile) anche avendo una moto meno potente di quella dei suoi avversari. Aveva 28 anni, e mi aveva impressionato la sua storia: orfano fin da piccolissimo, insieme ai suoi fratelli aveva rilevato la ditta di pompe funebri del padre ed andava alle gare con una moto che si era costruita da solo, trasportandola col carro funebre. A 22 anni era campione di ice-speedway, ovvero di corse in moto sul ghiaccio, e finì alla Yamaha. Correva insieme a Renzo Pasolini, matto come un cavallo, il pilota più spericolato del Motomondiale. In quel giorno di maggio, la 500 si corse pochi minuti dopo la fine delle 250, durante le quali Walter Villa, cadendo, aveva lasciato a terra frantumi ed olio alla curva di Lesmo. Non li tolse nessuno, non li pulì nessuno. Alla TV li vedemmo partire, poi più nulla, perché non c’erano telecamere lungo il percorso. Eravamo lì, con gli occhi fissi sul traguardo, e non succedeva nulla. Poi giunse la notizia dell’incidente. Quei secondi di tensione non passavano mai. Poi, a piedi, si vide un pilota che camminava contromano, il casco in mano, piangendo. Passando sulla curva “sporcata” da Villa, Pasolini e Saarinen, che erano all’interno e in testa, andarono a terra, trascinando altri otto piloti, e vennero travolti dal resto dei corridori. Più di 20 moto. Ancora una volta, il colpevole era scontato: il destino. Ero piccolo, il mio cuore batteva forse in modo esagerato per dei professionisti che sapevano di rischiare la vita ed avevano già visto in faccia la morte. Ma ho imparato una lezione per sempre. Chi fa le regole, e le deve far rispettare, quasi sempre se ne frega del bene comune, della sicurezza, della vita. Il cinismo ha mille facce, tutte diverse, ma un unico risultato. Nello sport, in politica, in economia, in qualunque manifestazione dell’uomo. La morte degli innocenti e l’impunità dei colpevoli.

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