– Alcune considerazioni sulla kultura e sul suo finanziamento. Come al solito un pippone interminabile, ma come sapete non amo la semplificazione propria dei partiti di destra moscia (PD e PDL) o di destra radicale e violenta (grillismo, negazionismo, fascismo, cretinismo, hooliganismo del calcio, criminalità organizzata). Per spiegare una cosa bisogna spiegarla, non basta dire: morte alla casta e via i negri e poi sorridere di demente letizia come se si fosse sindaci su due ruote. Primo passettino: il famoso direttore d’orchestra Riccardo Muti si è dimesso da direttore artistico del Teatro dell’Opera di Roma. In seguito a questa decisione la Camera di Commercio di Roma e la Sovrintendenza del Teatro, diretta dall’Amministratore delegato della Fondazione Musica per Roma (che controlla l’Auditorium Parco della Musica, il che mi pare un profondissimo conflitto di interessi) stanno valutando se chiudere o no il Teatro. La stagione, che costa diversi milioni di Euro, porta nelle casse 40mila Euro l’anno di biglietti staccati. Insomma, all’Opera non ci va nessuno se non coloro che sono costretti ad andarci per bon ton e sussiego aristocratico. Chi si interessa di buona musica va all’Auditorium Parco della Musica, che ha un programma complesso, estremamente variegato e di straordinaria qualità – ed infatti è sempre pieno. Chi ama Brignano, il Pulcino Pio, Marco Travaglio e Lady Gaga va altrove, come è giusto che sia. A ciò si aggiunga il fatto che, da Clelio Darida in poi (insomma da oltre 50 anni) il consiglio di amministrazione del Teatro dell’Opera è un cimitero degli elefanti per politici di un quarto di tacca che sono stati trombati al punto da costringerli a squittire, o magari bramire tenorilmente. Ma il programma del Teatro dell’Opera non interessa a nessuno, quindi che chiuda. Oppure no. Secondo passettino: negli anni 60 e più tardi negli anni in cui Renato Nicolini era stato assessore alla cultura, Roma era un fiorire stupendo di musica, teatro, pittura e cinema. La Festa dell’Unità creava nuovi idoli, come anche Canzonissima, il Cantagiro, il Festivalbar, il Festival di Sanremo, la radio con Bandiera Gialla – e poi la gente aveva imparato ad andare a vedere Grazia Scuccimarra, Carmelo Bene, Il Canzoniere del Lazio, il Banco, la PFM, il Perigeo, gli Stormy Six, Giorgio Gaber, Flavio Rocchi, il jazz… i concorsi come il Premio Strega erano truccati come oggi, vincevano dei penosi scannagrulli, ma molti autori bravi arrivavano lo stesso – perché la vita costava meno e perché il pubblico aveva molta più fame e sete di kultura. c’erano più soldi a disposizione? Ci sono due risposte apparentemente contraddittorie: a) Nossignore. Dall’estero non veniva nessuno, costi troppo elevati, ed il grande pescecane David Zard si rovinò organizzando da un lato un concerto di Crosby Stills Nash e Young che non si fece per un malore di David Crosby e per il quale dovette rimborsare i biglietti perdendo la caparra e le spese avanzate; dall’altro per aver organizzato il Santamonica Rock Festival con Lou Reed, Rod Stewart, Ten Years After e chi più ne ha più ne metta, che venne affossato dai divieti coordinati della DC, del PCI e del PSI (anche in quel caso dopo aver sostenuto in anticipo gran parte delle spese irrimborsabili); b) Sissignore: La gente andava ai concerti ed a teatro perché sapeva cosa avrebbe visto e persino la RAI era costretta ad inseguire e mostrare le belle cose che fiorivano nella strada, nei concerti e nei teatri. La SIAE costava il 16,5% di quanto costa adesso, e non c’era l’ENPALS. Il che significa che organizzare un concerto costava il 10% di quanto costerebbe oggi se si seguissero le regole. Terzo passettino: Walter Chiari, Topo Gigio, Cochi e Renato, i Brutos etc etc etc erano degli intermezzi delle trasmissioni TV piazzati come pause fra musicisti, cantautori, attori di teatro, ballerini, scrittori, registi cinematografici. Facevano ridere, ma erano un mezzo per farmi imparare cosa fosse la musica classica, quella popolaresca, il pop, i cantautori, il teatro classico e quello alternativo. A quindici anni sapevo chi fossero Uto Ughi, Giorgio Strehler, Luigi Tenco, Pier Paolo Pasolini, Carla Fracci, Rudolf Nureyev, Jacques Tati, Eric Satie, Sonny Rollins, Carmelo Bene, Vittorio Gassman etc etc etc. Fischiettavo il Concerto di Aranjuez di Joaquin Rodrigo, conoscevo l’Uccello di Fuoco di Igor Stravinskij, Edgar Varese e l’opera di Ginastera ed Aaron Copland perché ascoltavo gli Yes, Frank Zappa ed Emerson Lake & Palmer. E sapevo chi fosse Diego Carpitella, che oggi non lo sa più nessuno. Vengo da Primavalle e da una famiglia qualunque, ma ero esposto (come tutti) alla radio, alla TV, alla strada. Oggi, nella mia stessa posizione, i ragazzi conoscono Brignano, il Pulcino Pio, Marco Travaglio e Lady Gaga. Punto. Mentre io cercavo di capire chi fossero i Platters, Louis Armstrong ed i Beach Boys, i ragazzi di oggi non sono nemmeno interessati ai Backstreet Boys ed ai Take That. Roba troppo vecchia. Ci sono oggi meno autori di teatro, danza e musica di valore rispetto ad allora? Giammai. Ce ne sono di più. Ma nessuno va a vederli, e comunque non hanno né i soldi né la possibilità organizzativa di sopravvivere decentemente. O si organizzano in sette religiose, come il Comitato di Occupazione del Teatro Valle, o si lasciano inquadrare in correnti di partito (Zetema), o fanno la fame ed il freddo. Nessuno sa che esistono e non hanno vere possibilità di crescere. Conosco artisti di grande talento che fanno i badanti, guidano un’ambulanza, lavorano in un call center, si prostituiscono in club privée o mangiano un giorno sì ed uno no. Un pianista che conosco, una sera che usciamo insieme, cerca di rimorchiare una ragazza e le dice: sono un musicista. Lei sorride: wow, sei un DJ? E lui: no, suono il pianoforte. La ragazza si gira e dice: ah, sei un legnoso, non sei un vero musicista. Quarto passettino. Si dice che bisogna smettere di finanziare per miliardi una kultura che non vuole né vedere né sentire nessuno. Che dev’essere il mercato a stabilire quale artista debba sopravvivere e quale debba andare a raccogliere pomodori o vendere contratti assicurativi. Ma chi stabilisce cosa offra il mercato? Se io ti trasmetto dei cosiddetti cantanti e comici a palla su ogni canale che sminuzzano la quotidianità, la banalizzano, fanno macello della lingua italiana e fanno passare il messaggio della semplificazione, dell’ignoranza, della grettezza e del fascismo come un messaggio positivo, come farò a raggiungere i giovani e far capire loro che esiste una cosa chiamata qualità e che è contraria alla semplificazione, che invece è il nucleo di ogni dittatura politica (di qualunque colore), di ogni intifada religiosa (dall’Inquisizione all’ISIS) e rimbecillimento? Non ho speranze. Conosco ragazzi diplomati che non sanno leggere le lancette dell’orologio, di fronte a parole normali di oltre tre sillabe si arrendono e comunque non ne conoscono il significato, che si annoiano di tutto perché non lo capiscono, che escono da un Memorial dei Beatles e dicono: quanta musica sopravvalutata, due ore di concerto e nemmeno una canzone famosa! Dev’essere questo il mercato che stabilisce il diritto a sopravvivere del Teatro dell’Opera, del Teatro Valle, del teatro alternativo, dei locali che non fanno più musica dal vivo perché non se la possono permettere? Brignano, il Pulcino Pio, Marco Travaglio e Lady Gaga forever? Per fortuna no. Due anni fa sono andato ad un concerto di Francesco Guccini. Migliaia di ragazzi che cantavano a squarciagola, a memoria. E lui: ma ragassi, io ho 70 anni, non è la roba mia che dovete conosssere! La fame e la sete restano, per chi ha la forza di costruirsi una desemplificazione del cervello, chi possiede i lessemi necessari per dare un nome a ciò che sente, che ha l’inquietudine che Pessoa ha raccontato a chi ha ancora l’esigenza di vivere e non vegetare.Quindi: chiudiamo pure il Teatro dell’Opera, se abbiamo deciso di umiliarlo con un programma che non sarebbe andato bene nemmeno 120 anni fa. Chiudiamo il Teatro Valle, usando la debolezza di un gruppetto di fanatici religiosi che lo gestiva senza nessun rispetto delle leggi di sicurezza e senza pagare una lira per i costi vivi. Chiudiamo l’Angelo Mai perché fa cose fastidiose ai partiti. Costringiamo la gente a scegliere tra Gabriele Lavia e la rinuncia al teatro, tra Gigi D’Alessio e la rinuncia alla musica, tra Leonardo Pieraccioni e la rinuncia al cinema, tra Milly Carlucci e la rinuncia alla danza. Mandiamoci tutti affanculo e diventiamo il grillismo di noi stessi. Angela Merkel ha purtroppo detto una cosa giusta: se continuiamo così, sarà la gente a chiederci una guerra. Di fronte alla Sachertorte della morte della cultura non si può che dire: continuiamo così, facciamoci del male. Oppure diciamo che la cultura va sostenuta perché migliora la vita, migliora i cittadini, migliora la gioventù. Perciò sbaracchiamo le posizioni di potere della politica e della TV spazzatura. Basta Brignano, il Pulcino Pio, Marco Travaglio e Lady Gaga. Ci sono milioni di artisti bravissimi che continuano a prescindere. Perché hanno una vita sola, e non la buttano via. E non si sognerebbero mai di andare al Teatro dell’Opera, piuttosto vanno al Forlanini, dove prima c’erano i matti. Perché lì c’è ancora da imparare e si capisce che la complessità non è un ostacolo, ma una sfida. E che il premio per questa sfida è la vita, opposta al grillismo, al fascismo, al razzismo, alla miseria, alla morte.

Lascia un commento