– Oggi, 21 anni fa, a quest’ora lasciavo l’appartamento dei miei suoceri di allora, a Roma, presso i quali io, mia moglie Adriana e mia figlia Valentina stavamo trascorrendo alcuni giorni di vacanza insieme. Il mio matrimonio era già alla fine, Adriana abitava a Zurigo, io e Valentina a Gordevio, vicino a Locarno, dove mi ero trasferito per lavorare al quotidiano ticinese “La regione”. Insieme ad alcuni amici di allora sono andato (non lo sapevo, ma sarebbe stata l’ultima volta) al Teatro Brancaccio, in Via Merulana, a vedere una delle ultime repliche stagionali dello spettacolo che Giorgio Gaber portava in giro già da dieci mesi. Non ne sapevo nulla, sui contenuti. Come sempre, da Gaber ci si andava a scatola chiusa, per essere sorpresi. Per cercare qualle parte di noi stessi cui cercavamo inutilmente di nasconderci. Dopo una mezz’ora ero abbastanza deluso: Gaber era sul palco con una band, pochi monologhi, tutte canzoni più o meno conosciute, ma che importa? Erano quasi cinque anni che non ero riuscito a vederlo, non ero mai mancato tanto a lungo… Poi finalmente cose nuove, ed un monologo sull’eskimo, e la foto di Che Guevara. Tutti ridiamo, di noi stessi soprattutto. Siamo lì per questo. Poi Giorgio si fa serio: “Qualcuno era comunista per fare rabbia a suo padre”, ma no, questo non lo si deve mai ammettere, “Qualcuno era comunista perché si sentiva solo”. Ecco fatto, ho pensato. Pure questo mi tocca distruggere, ecco fatto… “Qualcuno era comunista perché Giulio Andreotti non era una brava persona”, Va meglio, sì, certo “Qualcuno era comunista perché Ustica, la Stazione di Bologna, Piazza Fontana eccetera eccetera eccetera” e sono lì col pugno alzato, insieme a centinaia di pugni alzati. “Qualcuno credeva di essere comunista e forse era qualche altra cosa”, da un lato l’uomo umiliato dalla propria debolezza, dall’altro l’uccello pronto a spiccare il volo per cambiare veramente la vita. Ma cosa ne sapevo io, allora, di cosa fosse la vita? Quante frasi fatte? Quante bugie, spesso dette da me a me stesso, per mascherare la paura? Quante cose difficili da capire, da costruire, quanta solitudine inattesa… “Ed ora?” grida lui. Anche ora, come in due, da una parte l’uomo quotidiano che si umilia e dall’altra l’uccello, senza più nemmeno l’intenzione del volo. La fine della nostra sciocca superstizione movimentista l’ha cancellato: “Due miserie in un corpo solo”. Da allora, e sono passati oltre vent’anni, quando sento questa frase piango. Di me stesso e di voi tutti, ma soprattutto della mia sconfitta. Posso aver raggiunto qualunque cosa nella professione, e Dio sa se l’ho fatto. Ma l’amore per me stesso, dopo la morte del volo, non so nemmeno cosa sia. E me ne sono ammalato, come una bestia in cattività. Non so più come fare. E lui non c’è più, a spiegarmi, una volta all’anno, le cose a cui non avevo ancora mai pensato. Sono adulto, so fare da solo. Solo, appunto. Solo. Come tutti, dopo il gennaio 2003, anche se non lo sapete.
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