– Sono stato a Trieste a vedere “L’onda dell’Incrociatore”, tratto dall’omonimo romanzo di Antonio Quarantotti Gambini, di cui finora avevo letto soltanto “La calda vita”, trovandolo estremamente attento al riflesso adolescenziale nella vita degli adulti, una sorta di Tommaso Landolfi rovesciato, comunque un degnissimo rappresentante della scuola di romanzieri italiani che comprende anche Parise, Pavese ed arriva fino al grandissimo Dino Buzzati. Una letteratura che usa i principi e la lingua eroica (quindi niente Verga, niente Pirandello) e la usa come fosse viva e non il frutto di un’immensa operazione politica. Per questo amo quella letteratura, perché come il cinema di Fellini ci da un’idea dell’Italia popolana che vive la propria minuscola realtà locale come se fosse parte di un armonico insieme nazionale (non nazionalista) in cui la povertà, l’emigrazione, l’oppressione politica e culturale, la miseria solo apparentemente dignitosa delle città opposte alla morente cultura contadina. Senza questa letteratura non ci sarebbe il neorealismo italiano del dopoguerra, per intenderci. Ma perché prendere un romanzo del 1948, che mette in scena la Trieste popolana degli anni 20, e metterlo in scena oggi, con un immane travaglio drammaturgico e scenico, perché un romanzo non è mai scritto per il Teatro, ma per la Vita. La risposta è già nella domanda. In questi mesi penso spessissimo a “Non ora, non qui” di Andrea Cosentino, che secondo me è (in nuce, perché il lavoro l’ho visto due volte, ancora incompiuto) la summa summarum di un percorso culturale di un’intera generazione. Oggi il Teatro, relegato ad arte minore, diventa Vita per sopravvivere. Il lavoro messo in scena da Maurizio Zacchigna ed i suoi più vicini amici e collaboratori esce dal Teatro, nei momenti più intensi, per farvi ritorno con la cornice, il ruolo di Ario adulto, una sorta di Virgilio disperato che, avendo capito che Dante Alighieri fosse stato nulla più che un’invenzione propagandistica, cammina da solo per l’inferno, sapendo che non ci saranno le gambe di Lucifero su cui arrampicarsi per raggiungere il Purgatorio. “Io sono un assassino”, dovrà ammettere alla fine. Ario adulto vede, piange, si angoscia, ma non proietta. Perché la straordinaria bravura degli attori lo renderebbe impossibile. Massimiliano Borghesi nella parte di Eneo è allo stesso tempo un simbolo, come l’Asso di Elsa Morante, ma il segno della sconfitta della generazione che nel ventennio credette nei soldi facili, nel mito americano, nella furbizia e nella violenza, nella sessualità come forma di potere. Inutile dire che Eneo ricorda in senso positivo i bicipiti che la destra di oggi non ha. Fascista, ma uomo, non Brunetta. Bandito, ma integro, non Cicchitto. Sciovinista ma non impotente. E l’attore ha un ghigno d’uscita che popolerà le mie notti: cattiveria autoimposta, paura di fallire, paura dei propri sentimenti. Negli incontri nella Moana con Lidia si intravede un altro Eneo, che farà il fuochista, perse la gioventù, il vigore, il fascino, la speranza. Lidia, ovvero Paola Saitta, è perfetta. Mentre la guardavo mettersi il rossetto, passare da bimba a donna, essere travolta dall’assenza di tutto ciò che rende la vita degna (affetti e speranze) nel gorgo della sessualità come forma di potere, mi ha fatto pensare ad Anna Magnani. Ma non Mamma Roma, ma l’Anna che lavorava con Dario Niccodemi – un contemporaneo fondamentale di Quarantotti Gambini ed a cui faceva la corte Paolo Stoppa… una ragazzina dai capelli corvini, magrissima, che si accorge che da se sprigiona una forza di cui ancora non conosce nulla, che la ottunde, e che solo molto più avanti nella vita saprà capire – come la mamma di Ario, sua tragica rivale in “amore”. Lorenzo Zuffi è Berto, il fratellastro di Lidia ed il compagno d’infanzia di Ario. Costituisce la cattiveria della falsa cultura cattolica e bacchettona: vigliacco, opportunista, invidioso, che si crede furbo e poi si appassione per ogni piccola cosa. L’attore riesce a mettere in scena una sorta di ingenuità rabbiosa insieme a questa violenza nemmeno nascosta, frustrata dall’età e dal sacro rispetto dei ruoli, rotto solo dagli intrighi. Sarà lui a spingere Ario all’omicidio, così come a torturare Lidia in modo disumano, a consegnare le prove della sua perduta verginità alla madre, a tenerla ferma mentre il patrigno ne controlla l’illibatezza con una violenza orribile degna di quella società in parte fortunatamente dimenticata, in parte riportata in auge dalla cultura della destra leghista e berlusconiana. Lorenzo ha tanto del Marlon Brando adolescente, della sua presenza fisica e scioltezza espressiva. E’ così naturale che non si vede la grande prestazione attoriale, insomma. Ma Ario (Roberta Colacino), è il centro dell’uragano, come il protagonista di “Mignon è partita ” di Francesca Archibugi. L’adolescente vero, sincero, martoriato dalle contraddizioni, dall’insicurezza, dall’allegria esplosiva, dalla mancanza di affetto. Non avevo mai visto recitare Roberta Colacino, se non in una particina ne “L’Eredità dell’Ostetrica”. Ora so che è una delle più grandi attrici che io abbia mai visto sul palco. Mai fuori dalle righe, specie quando commuove. Mai fuori dal ritmo, specie quando corre e salta ed esplode di rabbia, di gioia, di disperazione, di semplice gioventù. In lei c’é la somma del capolavoro di Quarantotti Gambini: l’unico personaggio sincero verrà corrotto a compiere un atto criminale. Per amore, per gelosia, per il bisogno di appartenere ad un mondo molto più gretto di quanto lui sarà mai. Ario è l’essere umano umiliato dal fascismo, che obbliga al bestiale ciò che c’è di più tormentato: l’anima. Ho fatto tanti chilometri per vedervi, amici miei, ed ho sofferto per la parte di pubblico cialtrone che invece era venuto per farsi vedere. Siete magnifici, magnifici, magnifici.
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