– Scena Verticale al Teatro Td IX Tordinona, una notte da ricordare. Perché Dario De Luca e Paolo Chiaia, insieme a tutto il gruppo di artisti di Castrovillari, sono la punta avanzata, l’iceberg, la stella polare del Teatro Canzone. Il Premio Giorgio Gaber, senza di loro, non ha nessun senso. Meravigliosi, unici, commoventi. Fin qui le emozioni, travolgenti senza mai essere patetiche. Passiamo a spiegare. Si tratta della seconda parte della trilogia sull’Italia contemporanea. Nel primo lavoro Dario introduceva il concetto di “inoccupazione” e prendeva le distanze da tutto ciò in cui ci eravamo abituati a credere e sperare in una sofferenza legata alla malinconia sul passato, all’ansia per il presente, al pessimismo sul futuro. Ora in questo nuovo spettacolo, “Va pensiero che io ti copro le spalle”, Scena Verticale spiega il mondo di oggi: l’analfabetismo funzionale, la schizofrenia tra ciò che dovremmo essere e come vorremmo apparire, l’umiliazione del lavoro interinale, l’impossibilità della vita affettiva. Farcela diventa talmente raro ed importante che il fondamento della società – spiega lo spettacolo – è l’ipocrisia, collegata alla demente letizia il cui simbolo vivente è il Sindaco di Roma Ignazio Marino: “Io dico cose scritte da altri, quindi non me ne assumo la responsabilità, perché non le penso né le ho mai pensate. L’autore nemmeno, se ne assume la responsabilità, dato che lui queste cose non le ha mai dette”. Quindi? Quindi vale tutto, verba volant ma scripta anche. Nessuno sa più parlare, le parole vengono usate come strumenti estetici ed apotropaici, si è sempre sul palco. E qui Scena Verticale ha un’idea straordinaria. Paolo Chiaia e Dario De Luca dialogano, l’uno visibile sul palco, l’altro altrove, ma illuminato in controluce, impietosamente, mentre va al bagno, si impicca, vota a casaccio. Da qui la spiegazione dell’ipocrisia come ultima forma di difesa di un io di cui non si sa più nulla: dovendo essere efficienti per un sistema umiliante, essere noi stessi sarebbe un impaccio. Non esiste più un momento proprio. I social network ci illuminano sempre. Siamo a prescindere dall’essere, appariamo e ci muoviamo a prescindere dal fare, siamo un significato senza significante e senza intenzione, un romanzo senza autore. Non vi aspettate banalità su Facebook (tranne il vezzo splendido di Dario, che su Facebook non c’è ed è per questo – dice Paolo – un emarginato, quindi un uomo sano), ma un’analisi profonda e dolorosa su questo essere presenti al mondo anche quando si è assenti a se stessi. In una situazione del genere gli affetti sono affettati, non affettuosi, espressioni di tronismo e testosterone, l’impossibilità all’intimità viene spiegata con il terrore di essere, la paura atavica ed insormontabile di esprimere un giudizio, una posizione, una volontà. Scena Verticale ci mostra un’Italia in cui volere è un peccato mortale, una cosa sconcia, un pericolo mortale. E lo fa senza patemi, senza gocciolare retorica, senza battutacce sporche – ma parlando italiano, questa lingua sconosciuta, alla faccia di Jessica (eroina negativa della piéce) che, poverina, in una frase con due subordinate affoga e sospetta la frode. Perché questo è il motto finale. L’intelligenza è sospetta. Il pensiero è morto (lo diceva già Gaber…) Il sapere sconcio. La coerenza è solo una messa in scena, una finzione teatrale. La volontà è uno scherzo triste. Ma finché esistono Dario e Scena Verticale, noi che ci ostiniamo a pensare, non resteremo mai soli. Ci sono loro, un faro, un Pianeta Rosso che vediamo ad occhio nudo. Altro che Luna.
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