– Ieri sera sono finalmente riuscito a vedere “Gli Ebrei sono Matti” di Dario Aggioli, interpretato dall’autore insieme all’inseparabile Angelo Tantillo. Si tratta di uno spettacolo apparentemente semplice: in una stanza di un manicomio piemontese, due personaggi. Enrico ripete ossessivamente frasi del Duce ed insegue il fantasma dell’infermiera Luciana, cui ha toccato il sedere e che quindi non gli viene più a dare i bacetti sulla fronte. Angelo cerca di imitare Enrico, ma non è matto. E’ un intellettuale ebreo, il famoso insegnante di teatro Ferruccio, fuggito da Roma che i medici hanno nascosto sotto falso nome, Angelo appunto, per evitare che soccomba alle leggi razziali del regime. Vi avverto subito: chi, come molte anziane signore impellicciate ed apparentemente presenti, si aspetta di ridere. Non si ride, o si ride a denti stretti. Chi, come me, perennemente travolto dalla burbanza del suo pathos, si aspettava un’alluvione di lacrime, sia pronto ad accettare che Aggioli e Tantillo riescono a porre la conversazione impossibile fra i due personaggi ad un livello di umanità disperata e disperatamente sola, incomunicabile, in cui l’orrore del nazismo diviene un aspetto di questa solitudine, di questa mancanza di comunicazione. Mentre i due personaggi lottano contro i propri limiti per cercare di costruire una relazione di amicizia (“ti regalo un segreto, e quel segreto sarà tuo, perché i regali non si danno mai via”), il personaggio di Enrico, quando soffre troppo per i limiti della sua balbuzie ed incapacità di focalizzare, indossa delle maschere. Protetto dalle meschere riesce a dire frasi che altrimenti lo sormontavano, lo annichilivano – cita Mussolini a memoria. Questo è, a mio parere, il centro di questa piéces sull’incapacità di dialogare intimamente, di parlarsi DAVVERO. In un mondo dominato dal fascismo non c’è scampo nemmeno nella pazzìa, perché anche la pazzia, come estrema forma dell’interazione umana, viene combattuta. Alla fine vengono i tedeschi, uno dei personaggi verrà deportato, l’altro, che nel frattempo ha assunto tutti i metodi espressivi anche del suo compagno di cella, resta sovrumanamente solo. Ma non si piange. Si ammette, dopo aver visto un gioiello di teatro, di metafisica resa accessibile a chiunque con grazia e senza spocchia, e vera umanità, che la vita potrebbe essere bella e semplice, se papà e mamma venissero a trovarci, se fossimo stati buoni, se Luciana mantenesse la promessa di un bacio vero, se le bombe della guerra, arrivando in silenzio, liberassero invece di opprimere – si ammette che la vita sarebbe degna di essere vissuta. Ma nel manicomio criminale in cui tutti noi siamo rinchiusi l’affetto è scomparso. Restano solo le voci stentoree ed i messaggi di volgare violenza della politica. E due possibili matti che non solo non salevranno l’umanità, ma nemmeno se stessi, rinviando il tutto al pubblico. Enrico lo vede ancora, in sala, cerca di conversare anche con le persone. Angelo, invece, non ci crede più, non vede nulla, La rassegnazione gli ha uccios la speranza della pazzìa – proprio come succede a noi in questa disgustosa campagna elettorale fatta da criminali confessi, proprio come succede a noi in questa Italia in cui nemmeno sotto la cenere sembra più covare una rivolta che non sia cieca e quindi inutile.
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