– Siamo quasi alla fine, e si sente. Stamattina sono stato a trattare per la mia nuova dieta, è andata meglio del previsto. Scendo pochissimo di peso, ora, ma anche perché la mattina, facendo il mio giro, per la seconda volta mi sono fermato in un bar ed ho preso caffè e cornetto. Lo so che è stupido, ma è da un mese che sono chiuso in un albergo a sognare avventure incredibili ed a fare la fame. Fino ad oggi è stata l’euforia a spingermi. Ora, naturalmente, i pensieri della vita quotidiana tornano ad assalirmi e qui a San Marino comincio a sentirmi davvero un estraneo. Detto così sembra magari che io sia depresso – a ciò si aggiunga che piove ininterrottamente da quattro giorni e il Monte Titano è quasi sempre immerso nella nebbia – ma non sarei d’accordo con la diagnosi. Sono più che altro spaventato, spaventato da ciò che ritengo io debba fare, dalle decisioni prese, dalla fatica che queste decisioni comportano. Qui, per un mese, ho dormito e mangiato in modo assolutamente regolare ed avevo chi si occupava di me in qualunque momento. Il mio corpo mi viene ora restituito ed io non so che farne. Ci sono telefonate personali che dovrei fare e non ne ho voglia, ci sono accordi da prendere ed in questo modo deludere diverse persone – e questo certamente non fa piacere. Devo trovare la forza per fare palestra. Non so davvero come farò a costringermi. Per me la vita è sempre stata una canzone. Qualcosa scritta e dedicata a qualcuno, molto ma molto raramente dedicata a me stesso. Ora ci si aspetta da me che io faccia proprio questo. La vita si restringe, la voglia di scappare altrove cresce, il bisogno di evitare persone che mi fanno soffrire o mi tolgono energia o mi hanno profondamente deluso si accomuna ad una necessità impellente di nemesi, di un’uscita di scena che sia da film, indimenticabile. Ein Schlußwort, come si dice da noi in Germania. Finché non lo trovo, continuerò a traccheggiare ed oscillare come un pupazzo di latta, temo. E intanto il tempo vola. Constantin Seibt diceva sempre: la felicità è imparare a sprecare tempo senza rimpianti. Che sciocchezza. Ti voglio bene, Conschti, ma credo piuttosto il contrario. La felicità è imparare a non sprecare nemmeno un minuto. Sicché ho compiuto la mia ennesima marachella, sono andato al Convento dei Cappuccini con l’intenzione di chiacchierare con un frate sul senso della vita. Dato che avevo dormito poco a causa di un cliente rompitasche, ero davvero stanco e svagato e così sono entrato in chiesa per “riflettere”. Ho verificato che sono dimagrito abbastanza per mettermi in ginocchio su quegli ostacoli da atletica leggera che, entrando nella Casa del Signore, tradizionalmente si frappongono fra noi e il Cristo, e mi sono addormentato su quello più vicino all’uscita con le ginocchia sul velluto e il viso tra i gomiti. Da lontano assomiglio ad un disperato che piange un congiunto o un disgiunto, ne sono certo, perciò mi appisolo in piena buona coscienza. Dopo quelli che mi paiono pochi secondi, ma che poi scoprirò essere stati 40 minuti, qualcuno mi tocca insistentemente sulla spalla: “Figliolo, svegliati, stai russando e noi dobbiamo tenere la nostra funzione!” Ecco fatto, il solito Pierino, sobbalzo. Sobbalzo? In realtà passo dal sogno ad una confusa semiveglia in un caterpillare di movimenti pachidermici e sconnessi. Il Frate mi tiene la spalla, sicché perdo l’equilibrio, faccio mezzo giro su me stesso e mi schianto come una gigantesca palla da bowling sull’inginocchiatoio da sei su cui riposavo. L’effetto è nella mia memoria visiva come nella moviola di Carlo Sassi. Sotto il mio procombente peso la suppellettile da paradiso si piega, si inarca, oscilla, pende, pende, pende, e poi scroscia sull’inginocchiatoio davanti con un crack malaugurale. Quell’attrezzo, a sua volta, si piega e colpisce quello avanti. In pochi secondi, con l’effetto domino, ho sdraiato una fila di venti inginocchiatoi ed ho trasformato la distanza tra me e l’altare nel percorso d’allenamento dei Marines ad Annapolis. Il Cappuccino che mi ha svegliato mostra due cornetti con le mani ed inizia a squittire come Rosy, la compagna di Topo Gigio, quando viene rapita dal Grande Pescegatto nella Grotta delle Bolle d’Oro, all’angolo del Mare del Corallo Rosso. Io sono incastrato a terra e non riesco a rialzarmi. Arrivano altri due Cappuccini, niente zucchero nei loro occhi, e mi sollevano di peso. Intorno a me c’è ora un capannello di Frati che mi guardano in cagnesco. Mi dispiace, balbetto, se ho rotto qualcosa lo pago. Non si sente volare una mosca. Arriva uno che si vede che ha il carisma del comando e, gentilmente ma con fermezza, mi accompagna all’uscita. Che faccio io? Nel disperato tentativo di non farmi odiare per sempre, all’uscita mi divincolo per girarmi verso l’altare e fare il segno della croce. Bravo bigotto che sono. Un’altra avventurosa torsione del busto, mani che mi lasciano, uno scalino in marmo sdrucciolevole eeeeee…. Paffff, di fianco in una pozzanghera. Per un minuto bestemmio il Papa Pio IX da Senigallia, che quando Garibaldi venne a nascondersi qui in un moto di generosità decise di non distruggere a cannonate le fortificazioni del Monte Titano ed indirettamente è il responsabile di queste settimane di marachelle e umiliazioni. Non ne posso più. Devo tornare a casa. Qui mi pare che la maggior parte del peso che ho perso venisse dalla decrescenza del cervello, che pure non è mai stato il mio punto di forza (punto di forza? Ho un punto di forza? Ma davvero davvero?). Porca l’oca, piove ormai da sempre, mi cresceranno le branchie come a Kevin Costner in Waterworld. Bisogna che io oltrepassi il Rubicone. O lui oltrepasserà me.

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