“Andiamo davvero verso un approdo?” La risposta, ovviamente, è: no. Ma tutti continuiamo a correrci dietro, a questo approdo impossibile, come formiche disperate. E questa disperazione diventa presto stasi, quindi angoscia autodistruttiva, poi pazzia – l’impossibilità di qualsivoglia redenzione, la negazione del vivere sociale, dell’idea stessa di comunità. “Chi ama brucia” di e con Alice Conti, con la regìa di Alice Colla, è la più travolgente e tragica metafora del tempo in cui viviamo che io abbia mai visto, una resa dei conti impietosa di tutte le contraddizioni del nostro Paese, della nostra (supposta) cultura, della nostra (perduta) umanità. Alice Conti appartiene ad una generazione di attrici strepitose (come Irene Serini e Valentina Conti) cui riesce, indossando un sorriso, di esprimere il buco nero dell’urlo più vero e profondo di pena assoluta, quella che non vediamo mai, quella di quel nostro simile che ha perso tutto, persino la percezione della propria indentità, e si è trasformato in dolore totale – e per questo lo scansiamo, perché ci fa paura ed è osceno. Raccontando la realtà brutale, violenta, immutabile e cieca del Centro di Identificazione e di Espulsione (CIE) di Torino, “Chi ama brucia” diventa una metafora immanente ed imprescindibile di tutto ciò che siamo diventati. Come in “Brazil” di Terry Gilliam, il CIE è un gorgo tenuto insieme da una girandola vorticosa e sanguinosa di proclami ufficiali, di regole scritte ed ancor di più implicite, di delirio esplicito, in cui degli esseri umani vengono annientati senza difesa alcuna, senza alcuna garanzia di nessun tipo, in un vacuum in cui tutte le regole democratiche e del vivere civile vengono sospese e l’orrore della differenza tra la verità ufficiale ed il quotidiano è talmente infinita da essere annichilente anche per gli operatori del centro, che impazziscono. La piéce racconta della vita nel CIE nell’avvento del Natale, uno strazio terribile in cui gli “ospiti” (diremmo meglio “i detenuti”, ma non hanno nemmeno il diritto ad essere considerati come tali) vivono al di fuori del tempo, senza sapere perché sono lì, per quanto ci staranno, cosa accadrà dopo, se mai esista un dopo – perché, si scopre imparando la pazienza escatologica del giorno per giorno, il dopo non arriva mai, a meno che non si riesca a ridursi in uno stato tale per cui si guadagni l’uscita dal campo per essere ricoverati in ospedale. Morire no, è proibito. Donne che per giornate intere sbattono la testa al muro, nugoli di uomini come insetti che si battono per lo zucchero, vietati i cellulari e le comunicazioni con l’esterno – garantite da palle da tennis aperte e riempite con bigliettini di messaggi personali), Alice Conti riesce a mettere in scena tutto, non trascura nesssun dettaglio, in un vortice in cui la follia del tutto chiude la gola, fa mancare il respiro, fa venire la voglia ed il bisogno di scappare. E proprio nell’acme di questa tragedia, ad Alice Colla riesce un colpo da maestro – quel quid che trasforma un bellissimo lavoro in un capolavoro assoluto: quello di farci capire che i detenuti sono ostaggi del personale, che a sua volta è ostaggio dei detenuti e delle regole, ma che tutti costoro si distruggono in un continuum di quella società da cui credono di essere esclusi e che invece riproduce le stesse regole, le stesse violenze, la stessa totale mancanza di speranza, di via d’uscita. In questo istante Alice Colla supera d’un balzo il Giorgio Gaber di “Far finta di essere sani”, dimostra che negli ultimi 40 anni la società italiana non solo sia divenuta molto più barbarica e cattiva, ma che oramai persino l’ironia è divenuta una manifestazione del terrore più profondo. Nella sua lotta con la grata di metallo (che è una delle tre protagoniste della piéce insieme alla “Croce” – l’operatrice del CIE – e lo zucchero a velo) Alice dimostra di essere non solo scrittrice, regista ed attrice, ma anche il punto d’arrivo contemporaneo di un discorso iniziato da Jacques Brel: colei che prende il testimone di 50 anni di rappresentazione della vibrazione stessa del dolore, fatta immagine, canzone, testo, atto. Lo chagrain (la nostalgia della nostra perduta umanità) di Brel, che Gaber aveva trasformato in sarcasmo, viene riportato da Alice Conti al punto di partenza, alla sua essenza primordiale ed invincibile. Ho detto del terzo personaggio, lo zucchero. Il totem di ciò cui si possa ancora aspirare, che possa essere distribuito senza limiti, come la pietà, e che si rivela invece per il fumo della rabbia, della paura, della desolazione. Alla fine, quando estenuati da tanta sofferenza stiamo già battendo le mani, Alice Colla ci regala un’ultima inattesa piroetta. Si trasforma da carceriera in Marylin Monroe che visita le truppe nel Vietnam, la madrina della strage, la Garante dei Diritti Umani del centro, che in un parossismo orwelliano ci toglie l’ultima speranza di un happy end possibile. Siamo alla fine di un’epoca ed all’inizio del nulla, come in “Never ending story”. Ma qui non ci sono cani volanti che accorrano a salvarci. Qui ci sono anime dolorose come quelle di Alice Conti ed Alice Colla a ricordarci che la testimonianza stessa di questo crimine contro l’umanità, pur non risolvendo in se nulla, è l’unico punto di ripartenza possibile: vedere l’inferno in faccia per trovare il coraggio e l’energia per essere altro. E quando, travolta da uno spettacolo fisicamente straziante, Alice in un soffio di fiato annuncia che finisce lì, noi iniziamo a sperare che invece, proprio da quel sorriso che è una smorfia di stanchezza, passione e pena infinita, possa ripartire un’umanità diversa, cui vorrei a tutti i costi appartenere, e che brucia dentro il cuore. Perché solo chi ama, brucia.

Lascia un commento