L’apparizione di Mario Capanna nella trasmissione di Massimo Giletti su RAI UNO mi ha sconvolto, proprio ora che pensavo di aver visto tutto. Capanna, che da ragazzo trattava tutti con una strafottenza ed un’arroganza superata solo, per quanto ne so, da quella di Nanni Moretti (pur senza averne il talento artistico), è stato uno dei cosiddetti grandi leader del 68. Uno di coloro che, guidando in modo autocratico Democrazia Proletaria e confluendo poi scilipoticamente di partito in partito fino ai verdi, ottennero di restare in Parlamento, senza lasciare traccia di se, per quasi vent’anni, dal 1978 al 1992. Tralascio di raccontarvi i distinguo che ai tempi dividevano DP da tutte le altre microformazioni nate dall’implosione di Potere Operaio, tutte tese ad occupare lo spazio creatosi a sinistra del PCI, ma tutti rigorosamente tesi a non spiegare, nemmeno a se stessi, l’esistenza di quello spazio se non in termini massimalisti e quasi ecclesiali. Va bene così, ciò che è stato è stato. Anche se la sua generazione CI DEVE una sana autocritica e rivisitazione, vista col senno di poi, di cose positive e negative di quel tempo, tutte cose che vanno ben al di là del suo pamphlet autocelebrativo intitolato “Formidabili quegli anni” e l’insopportabile zuccheroso “Lettera a mio figlio sul 68”, che è una parodia inconsapevole di “Lettera a un bambino mai nato” di Oriana Fallaci. Che belle somiglianze. Potrei chiuderla qui dicendovi che Capanna è un piccolo borghese di provincia (Città di Castello, la città di Monica Bellucci e di Ilaria D’Amico, la nuova compagna del camerata Gianluigi Buffon), il cui padre aveva soldi da spendere per mandarlo a studiare a Milano, che da vitellone, grazie alla sua strafottenza e parlantina, divenne un leader del vitellonismo esteticamente di sinistra (tanto disprezzato da Pasolini) e riuscì a diventare ricco alle spalle di coloro di cui diceva peste e corna da mattina a sera. Potrei dirvi che speravo che su lui, Deaglio, Boato e gli altri cosiddetti intellettuali eruditi che hanno costruito una carriera sui ragazzi che si picchiavano con la Polizia, e che mentre il sangue ancora riempiva le strade divennero improvvisamente craxiani, calasse il meritato oblìo, visto che non faranno mai autocritica e sono quindi divenuti inutili. Invece no. Capanna reclama spazio, scrive un altro pippone inutile, la RAI glielo promuove in una trasmissione di regime come quella di Giletti e lui va li perfino a rompere i coglioni, insultare e sostenere ultragrillinamente di essere l’unico pulito in un oceano di scabbia. Sono sconvolto perché l’ego malato e psicotico di questo rottame spande melma e disgusto su un’intera generazione, in nome della quale la piccola borghesia lo ha abilitato a parlare, essendo lui sciocco, vanesio e superficiale – e soprattutto venduto fino al midollo. L’esistenza di Mario Capanna rende credibili le scombiccherate minchiate che Berlusconi racconta sui comunisti e sposta l’elettorato italiano, che di lui non ricorda nemmeno l’esistenza, ancora più a destra: se quel fanfarone pariolino rappresenta la rivoluzione, evviva la restaurazione, viene da dire. E invece no. Mario Capanna va spiegato per rimettere la chiesa al centro del villaggio. Mario Capanna e tanti altri leaderini tra il 68 ed il 78 non sono stati né compagni, né rivoluzionari, né comunisti né tantomeno ribelli. Erano e sono rimasti saccenti figli di papà che si credono autorizzati a fare qualunque cosa pur di apparire. Sono l’escrescenza tumorale della decisione consociativista del PCI del 1948 che, invece di scegliere con i socialisti, gli azionisti ed i repubblicani la lotta per una terza via laica e moderna per l’Italia, strinsero un accordo con la DC che ancora oggi umilia la nostra società, la nostra cultura, il nostro modo di vivere e di pensare, la nostra estetica, la nostra economia, e continua a distruggere il nostro futuro. Qualcuno era comunista, diceva Gaber. Capanna no. E chi lo crede o lo fa credere è complice di un crimine di mistificazione.

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