Naturalmente il giorno esatto non me lo ricordo. Ricordo solo che era il dicembre del 1978 e che al Brancaccio eravamo Daniele, io e Vanna. Di Gaber conoscevo le canzoncine che facevano ridere in TV, ed un paio di canzoni serie, ma che mi parevano musicalmente noiose. Ma Daniele, che è sempre stato più intelligente e maturo di me, mi ci portò quasi di peso. Naturalmente l’ordine dei monologhi e delle canzoni non me lo ricordo. Ma ricordo “Quando è moda è moda” ed il groppo alla gola. E poi “Polli d’allevamento”. E poi una sorta di giramento di testa, quella strana sensazione che ti prende per la contemporanea commozione, imbarazzo, nostalgia. Ero letteralmente sconvolto. Daniele mi guardava e ridacchiava. Devo aver avuto una faccia da tonto peggiore del solito. Ma poi Vanna cominciò a rompere le scatole, non le piaceva, non capiva il senso dei testi, voleva andare via. Sicché andai via. Daniele era furioso. Aveva ragione, avrebbe dovuto prendermi a ceffoni, che come al solito bastava una briciola di ricatto affettivo per farmi scattare come una molla. Così cominciai a comprare tutti i dischi ed ascoltare Gaber come allora ascoltavamo i dischi, una volta dopo l’altra, per pomeriggi interi, imparando tutto a memoria, specie da “Libertà obbligatoria” e “Dialogo tra un impegnato e un non so”, perché Daniele cantava “io per esempio Facchetti non lo conosco, non so neanche chi sia”, e poi “se mi viene bene, se la parte mi funziona, allora mi sembra di essere una persona”. Anche mio nonno era sempre mio nonno, ma prima non ci avevo mai pensato. E così, scomparsa Vanna, scomparsa Paola, scomparso Daniele, che si era stufato delle mie bambocciate, e su cui Claudio Lolli scrisse quel capolavoro chiamato “Michel”, cominciai ad andare da solo a vedere Gaber. Sempre. Anche due o tre volte di fila. Quando, alla fine dello spettacolo, lui prendeva la chitarra e scendeva tra il pubblico a cantare, lo adoravo e basta. Nessuno mi aveva mai spiegato nulla della vita, prima di lui. Lui prendeva le cose che avevo nel cuore e mi facevano paura e ci rideva su con affetto. Lui mi spiegava come non farmi fregare dai falsi miti, dai falsi sentimenti – ed io, che dicevo milioni di bugie perché credevo che la mia verità fosse oscena e non interessasse nessuno, imparavo a suonare e cantare le sue canzoni, prendendo a prestito le sue parole per quelle che non credevo che avrei mai avuto. Poi nacque Valentina, andammo a vivere a Zurigo. In un viaggio a Roma, poco prima del Natale 1992, Claudio portò me e Adriana, la mia prima moglie, a vedere il nuovo spettacolo di Gaber al Brancaccio. Ricordo che mi commuoveva ritrovare la sala e l’eccitazione che provavo sempre quando stavo per vederlo. Lo adoravo, semplicemente lo adoravo. All’Università di Zurigo avevo concordato che avrei scritto la mia tesi di laurea su di lui. Adriana ed io eravamo già finiti, come coppia. Mia mamma era morta, lasciandomi una tristezza ed una confusione terribile. Mi ero innamorato di una collega di università, che come mi accade spesso mi elesse ad Angelo Custode e Migliore Amico e si portò a letto alcuni che conoscevo, per poi mollarmi tra gli insulti quando osai protestare. Una cosa che mi è successa oramai un milione di volte. Quella donna mi disse una cosa che non ho scordato: “Tu mi aiuti, quindi devi restare. La gente di cui ti innamori ti usa e se ne va”. Le chiesi: ma scusa, ed uno che resta e che ciò nonostante … E lei: “Non se ne parla nemmeno, e poi io non sfascio una famiglia”. Gaber me le snocciolava tutte, queste scuse: sei troppo buono, troppo intelligente, troppo affettuoso, troppo vecchio, troppo superiore. E mi diceva che sarei rimasto solo per sempre, come lui. Già lo sapeva. Lui mi conosceva, mi vedeva, sapeva chi fossi veramente, una cosa che non sapeva nessuno e che non interessava a nessuno, perché il mondo funziona così per tutti. Quella sera Gaber recitò “Qualcuno era comunista”. Nessuno in sala la conosceva, naturalmente. Quando disse: “due miserie, in un corpo solo”, abbassò la testa e tacque, eravamo tutti in silenzio. Io piangevo come se mi avessero estratto il cuore con una coltellata. Ancora adesso, quando la ascolto, soffro. Quando mi è capitato di recitarla, a teatro, ho finito madido di sudore e lacrime. Ma fu lui ad ammalarsi, non io. Io imparai ad essere così solo da non sentire più nemmeno la mia voce, andando a fare il contadino in Germania, quando ancora non sapevo che pochissime parole di quella lingua. Mi mandarono via dall’università, iniziai a fare il giornalista, mi mandarono via, mia moglie mi tradiva e mi creava problemi sul lavoro, poi se ne andò e si portò via mia figlia. Sono ancora qui, quindi ce l’ho fatta. Si sopravvive bene a se stessi. La notte in cui morì, io e Kerstin eravamo a casa, a Menaggio, sul Lago di Como. Dovetti vomitare per il dolore, giravo come un pazzo per casa, avevo bisogno di un gesto. Così saltammo in macchina ed andammo sulla spiaggia della Versilia. Arrivammo all’alba. La spiaggia era piena di gente, alcuna con le chitarre, alcune senza, molte abbracciate. C’era il silenzio che Dio creò prima di sbagliarsi e trasformare la creta in donna e uomo. C’era un’alba nebbiosa che ci saliva alle spalle, mentre guardavamo il mare. Avevo finito le mie lacrime. Ma ora ero solo per sempre, decisi quella mattina, perché lui non mi avrebbe più spiegato nulla. Da lì in poi avrei dovuto fare da solo. Ho cambiato città, lavoro, amici, moglie, tutto, tranne me stesso. Quello non lo so fare. Ho incontrato di nuovo mio papà, i miei fratelli e le mie sorelle. Ho amato una donna ferita a morte, senza poter far nulla se non ferire me stesso. Ho ricominciato. Ho scritto monologhi e canzoni, ho portato tutto a teatro. Sono stato ignorato e deriso, poi ho trovato una maestra che, con pazienza ed affetto, mi ha insegnato tanto. Ho incontrato dei musicisti che ora posso chiamare fratelli. Ho ritrovato mia figlia. Ho incontrato un’altra persona che ha perpetuato il solito trauma, ma mi sono scoperto più forte. Oggi scrivo molto, anche a me “fa male il mondo”. Intorno a me ho legami più forti e saldi che mai. E poi una notte, nel febbraio del 2014, alla fine dello spettacolo un signore anziano mi ha messo la mano sui capelli, mi ha carezzato, e mi ha detto: “Bravo”. Non è giusto dirvi chi fosse. Ma quella notte Giorgio Gaber è venuto da me e mi ha detto che non sono mai stato solo, che semplicemente non mi sono accorto degli altri. E da quella notte, quando penso a lui, come stasera, ed ho il cuore gonfio, penso a me e Daniele, ai ragazzini che eravamo, e penso a quel concerto. La prima sera dell’amore più lungo della mia vita, quello per Giorgio Gaber, l’unico poeta dopo Giacomo Leopardi, colui che ha inventato una grammatica per le mie passioni e la mia vita confusionaria.

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