Sono stato in un locale di Via Tuscolana, chiamato 692, a vedere gli Acustimantico insieme a Michela Cohen. Sarebbe dovuto venire anche Riccardo Rozzera, ma non ce l’ha fatta. Noi tre volevamo capire se, per l’anno prossimo, valesse la pena di cercare di invitare questa band al Festival Gabriella Ferri. Scrivo i miei pensieri qui, poi vediamo cosa ne dice Michela. Prima cosa: ragazzi, qui si tratta di musicisti fe-no-me-na-li, davvero straordinari, e la cantante, Raffaella Misiti, ha una voce potentissima ed estremamente “istruita”, capace di salti di ottava repentina, cambi di colore strepitosi, necessari per seguire le melodie del chitarrista, Stefano Scatozza, che spazia dalla milonga alla bossanova, dal jazz al folk, inserendo citazioni intelligenti e spesso sorprendenti (Beatles, Le Orme, Segovia, insomma di tutto e di più) che vanno ad incastrarsi nel lavoro di Marcello Duranti, che da solo sostiene una completa sezione fiati, una di tastiere, una di percussioni ed un sequenzer digitale – tutto con due mani ed una bocca. Come i Procol Harum, hanno un paroliere che non è sul palco a suonare. La band esiste da quasi vent’anni, e si vede dalla sicurezza che ha costruito un suono ed una devozione a se stessi che è il frutto di tantissimo sudore, esperienza, controllo, saggezza e talento. Insomma, il concerto é stato davvero un’esperienza, anche perché il pubblico era composto soprattutto da aficionados che conoscevano le canzoni e ne cantavano i difficilissimi ritornelli. Come è possibile che una band del genere non sia su palchi di tutt’altra consistenza? Non lo so. I testi sono spesso talmente post-Mogoliani, o Andrea-De-Carlesi, da risultare deludenti, ma nel trionfo della cascata musicale, chi se ne accorge? E soprattutto, di fronte a ciò che propone il nostro Paese, a parte pochissimi (Cristina Donà, Samuele Bersani, Niccolò Fabi) chi può vantarsi dei propri testi e di musiche veramente nuove e belle e coraggiose e complesse? Nessun. Sicché Acustimantico è un concerto da ascoltare all’Auditorium, in religioso silenzio, oppure battendo le mani a scandire il tempo. Un concerto che ha bisogno di spazio per avvolgerti, di tempo per convincerti, di calma per sedurti. Altrimenti non capisci cosa diavolo stiano facendo, sono troppo difficili. A me piace da morire la musica popolare intellettualizzata (Stormy Six! Evviva!!), ma in un festival piacerebbe? Il che fa pensare a ciò che oggi si offre, si vorrebbe offrire, si deve offrire. Il pubblico vuole smaliziata leggerezza o icastica correttezza politica e morale, oppure ipnosi anestetizzante, come lo ska ed altre direzioni che Elio e le Storie Tese definirebbero “imparano quattro accordi e ci mettono su un repertorio”. Acustimantico no, ogni canzone è un brano di musica sinfonica in cui la voce popolare diviene strumento e misura. Straordinari.

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