Un uomo solo. Seduto ad un tavolo grezzo, di legno dozzinale, davanti a sé una tazza colorata e fumante. Fuori è buio e piove, ed è il suono che si sente meglio, come l’uomo che tira su col naso o fa rumore perché il the scotta. Lei è andata via che era ancora mattina, un sorriso tra i capelli, il naso arricciato, e frasi che ho dimenticato. Lui era già pronto, nessun augurio, perché l’affetto, col passare del tempo, diventa sempre più parco. Uno sbuffo, le dita che si toccano, poi la porta si chiude. Ancora non piove. Abbiamo bisogno della pioggia, ne viene troppo poca, e siamo animali assetati, arsi dalla rabbia e dall’ignavia, ma la pioggia ci migliora, per un poco. La strada di lei è altrove, deve prendere un aereo. La sua si interrompe alla porta, perché ha tantissime cose da fare. Quando ero ragazzo ero sempre in strada. Cercavo di dormire il meno possibile, quando ero stremato, ed il naso serviva per capire tutto, e lei era solo nei pensieri, quando credi che non verrà mai, e passi gli anni ad abituarti. Ma è stato bellissimo, perché aveva sempre più cose da raccontare, che la vita è stata generosa al di là delle più rosee speranze. La felicità è anche nel capire come un dono ciò cui il corpo e la mente reagiscono, il dopo non importa. La frustrazione è dei pavidi, coloro che sperano di non dover fare troppe cose, troppa esperienza, troppa allegria, troppi salti sbagliati e cadute rovinose. Ma la sua vita, l’ho già detto, è generosa. Un caleidoscopio di fatti e persone, di sogni volanti e capocciate nella realtà, con tutti i colori dell’iride di cui imparare il nome, che non saper dare i nomi a ciò che si prova è persino peggio che essere stupidi o viziati. Quando lei è venuta, contro ogni pronostico, si è accoccolata sulla poltrona giusta, quella comprata pensando che forse un giorno, ma non riusciva a star ferma. Allunga le gambe, stira le braccia, gioca coi capelli in bocca, accavalla, scavalla, accartoccia, poi persino in ginocchio. Una poltrona scelta bene, che resiste. La sua non è impazienza o noia, ma è la vita che le esplode intorno, battere le mani mentre racconta, schermirsi quando ride col cuore, che devono averla ferita spesso, ed i colpi dati con gli occhi, che lui si difende male e lo colpiscono ripetutamente al cuore. Lei capisce che lui fa sul serio, si spaventa e si entusiasma, lotta e partecipa, nasconde come può e si dice che deve. Dopodiché lei esiste anche a prescindere, mentre lui, passo dopo passo, si rinchiude, come se raccontarle di quell’incredibile avventura renda superfluo qualunque altro atto, perché la felicità, oggi, è essere vivi, passeggiare dopo la pioggia nel bosco, mangiare qualcosa che gli farà male, leggere righe importanti, ricordare ricordare ricordare tanto. La vita ha un suo ritmo, ed entrambi si accorgono nel medesimo istante di quando il tempo è finito e bisogna andar via. Lei fuori, lui sempre più dentro. Perché lei può ancora essere raggiunta, lui meno. Sicché i saluti, l’arcobaleno si scioglie, le gocce impiastricciano il balcone di cielo bagnato, lei si mette il cappotto e le scarpe e le spalle al di là della porta. Ultimo sguardo, un sorriso che resta quando lei non c’è più, il rumore del portone, poi solo il tramestio di uno scrollone di temporale, ancora un’esagerazione di una vita che insomma. Poi un uomo solo. Come miliardi di miliardi di uomini. Piangere di felicità, di gloria, inebriato di vita, sommessamente Cecil Taylor, la tazza così colorata che fuma. Un’abatjour lo rende visibile. Un uomo solo e piove. La vita è una cosa meravigliosa.

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