Anche se è passata un’intera giornata, è davvero difficile descrivere cosa sia stata la grande festa in onore di Gabriella Ferri che abbiamo vissuto sabato al Parco della Certosa. Cominciamo allora da Manuel Chiatti, che ha fatto un lavoro straordinario, faticando per oltre dodici ore, risolvendo problemi stremanti, offrendo a tutti un suono, sia sul palco che nel parco, pulito, intenso, che pervadeva lo spazio senza eccedere con il volume. Molto del merito della riuscita della serata è stato suo. Poi le amiche e gli amici del Comitato, da Flavio Rossi Albertini Tiranni a Salvatore, Paolo, Mauro, insomma tutti, che hanno magari bofonchiato perché siamo andati lunghi, e si sono stressati perché una parte del pubblico (che si aspettava una serata di cover landofiorinevole) è rimasta delusa. Ma sono stati una volta di più l’anima della parte fondamentale di questa festa: quella umana, dell’accoglienza e della condivisione. Poi Riccardo Rozzera, cui è riuscita un’operazione sui media cui noi non eravamo abituati, portandoci sulle pagine di tutti i giornali, con un rilievo enorme, meraviglioso, inusitato. E Michela Cohen, che ha avuto il suo battesimo del fuoco, impegnata a curare cinque band invece di una, e che mantiene sempre l’allegria e la leggerezza di una fatina, e risolve problemi senza mia offendere nessuno. Grazie. Poi Lorenzo Masini, Giovanni Narici ed i loro amici dei Transmission… Ho amato gli Stormy Six, i Return to Forever, Don Cherry, e poi Robert Palminger, Knarf Rellöm, l’intero postpunk tedesco nobile, quello che dai Weather Report ha imparato a rockare il jazz. Questi ragazzi sono più avanti, hanno assorbito tutte queste musiche e le hanno fatte proprie, perché nel mondo globale abbiamo gli stessi diritti su quella musica di chiunque altro, e da lì ripartono per un viaggio nuovo ed avventuroso, trasformando Hotel Supramonti di Faber in un brano di una band che ancora non esisteva: le Mothers of Invention di Frank Zappa con Paolo Conte alla voce. Ma le cose migliori sono proprio le costruzioni di jazz-rock che ci riportano alla musica prog milanese degli anni 70 e da lì scioglie le briglie e ci porta con se in modo ruvido e leggero, beatamente screanzato, adorabile. E la gente, osannante, ha capito. Salgono sul palco Alice Conti ed Alice Colla. Alice è perfetta, come Amy Winehouse, ma è di più, molto di più: è tutte le donne sensibili, deboli e piene di creatività che sono state schiacciate dal vortice del successo, dallo sciovinismo, dalla solitudine. In lei vediamo Janis Joplin, Mia Martini, e logicamente Gabriella Ferri, Chiusa nell’incubo di un simulacro degli anni 60, nata già ferita a morte, Alice muore un passetto alla volta, stregando anche i bambini, che percepiscono l’intensità la di là del racconto. Accanto a me, una signora anziana piange sommessamente: “Ma cosa hanno fatto a quelle ragazze? Perché erano così sole?” Alice Colla è cupa ed assente come il mondo dell’industria musicale, è lì ma con l’aria di non esserci, sottolinea in modo straziante la solitudine dei numeri primi. Portare loro è stata una scommessa vinta, e dato l’affetto che mi lega a loro, sia per i momenti simbolici che abbiamo condiviso, sia per la gioia che procurano semplicemente esistendo, ero travolto dall’allegria. Sicché (come direbbe Michelangelo Biagiotti) salgono sul palco Federico Leo e Sebastiano Forte. Un tuono nel deserto della musica italiana. Una spada laser nella solitudine interstellare, Un’apparente accorata clownerie che nasconde una musica altamente intellettuale, complessa, trascinante, e che cita le cose più importanti da Kurt Weill, Rodgers & Hammerstein, gli Utopia di Todd Rundgren, i Tubes, Briano Eno, Robert Fripp, l’epos di un rock che nasce forse con Steve Winwood ed i Traffic e si dipana lungo una storia infinita, dai Gentle Giant agli XTC, diventa melodiosa sfida alla melodia, ruggente antitesi al ruggito, traboccante gioia del creare, dell’inventare, dell’esplorare. I TU, oggi, sono la band più importante che conosco. Il loro disco è bello, ma ciò che fanno oggi dal vivo è escatologico, astronomico, irrinunciabile. Sono egoisticamente orgoglioso di averli portati in piazza. La gente, dopo cinque minuti di choc, ha cominciato a gridare di gioia ad ogni loop, ghirigoro, scherzo di virtuosismo, splash di leggerezza post-rock, leggenda. Così, quando siamo saliti sul palco noi, eravamo caricati a molla ed abbiamo suonato bene, eravamo felici, eravamo belli in una festa di bellissimi, musicisti in una bolgia di geni, stracolmi di luce – e quindi è venuto tutto bene, e la gente era felice anche di noi. E noi Emanuele Cannatella, Matteo Marchi, Augusto Ferretti e Leonardo Marcucci) eravamo felici di tutti. Stupefatti. E poi e poi e poi e poi… Alberto Guzzi guida una famiglia di tzigani divini, è il pifferaio magico di una scia di cometa che trascina la romantica precisione di Max Jurcev, la fanciullesca hippietudine di Matteo Zecchini (adoro la sua voce), l’inflessibile orologeria di Fabio Bandera e Sandro Perosa. La gente in piazza schizza fuori dalle scarpe, si balla e si ride di accorata malinconia, di ritrovata speranza, di amicizia. I Maxmaber Orkestar sono un sogno eterno, il popolo eletto che torna sempre a rasserenarci, a ricordarci chi siamo, a ritrovare le radici comune di tutti i popoli del Mediterraneo. Il mio amico Giancarlo Bufacchi dice giustamente che io sono “un Ulisse che non vuole tornare a casa”, ma quando suonano i Maxmaber mi sembra che essere a casa, poi, possa anche essere bello. Gianluigi Amadei ed Olga Rapelli sono lì, come semprissimo, quando l’aria si fa più intima e segreta. Sono sconvolto, in un angolo, mi dolgono le ginocchia, credo in Dio e nell’umanità, sono felice. E tutto per una festa di musica e parole al Parco della Certosa. Senza soldi, senza appoggi, senza sponsor. Canto, commosso, “Mamma li Turchi”, mettendo l’accento sulla famosa strofa “ci abbia la pelle bianca gialla o nera un regazzino è sempre na creatura”. Ed ho detto: la Terra appartiene all’uomo, non alle nazioni. Alla Certosa, per una notte, eravamo tutti fratelli e sorelle, ed io non ero solo, mai. E non lo eravate nemmeno voi. Mai.

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