Mi sono svegliato verso le cinque in preda ad una fortissima agitazione. Avevo avuto uno dei miei incubi ricorrenti. Cammino per strada nel pomeriggio inoltrato e porto con me due buste della spesa piene di vestiti. Sto cercando un posto per dormire. In una palazzina che è quella di Via Sebastiano Ziani, in cui ho passato i miei primi cinque anni di vita, ogni piano è stato trasformato in un loft e c’è un energumeno (non ne conosco il nome, era un uomo che mi metteva paura al cantiere dove andavo con papà da piccino e che ancora infesta le mie notti) che mi spiega perché non mi vogliono là con loro, ed io, sinceramente, vedendo lo stato pietoso in cui decine di barboni dormono in quei loft, penso che nemmeno io ne ho tanta voglia. Ma poi vado di posto in posto e la situazione peggiora sempre. Alla fine arrivo ad un immenso tendone da circo, così pieno di gente urlante e dolorosa da travalicare la mia soglia di sopportazione dello strazio. Ma nemmeno qui c’è posto. Da un’uscita laterale si va all’ultima spiaggia. Non so dirvi quanto grande, l’immagine mi viene dai film sui campi di concentramento ai confini tunisini della Libia, con decine di migliaia di persone disperate che parlano, gridano, piangono, puzzano. Tutto è fango, anche nell’aria. Piove, e l’unica copertura è composta da teli di plastica che lasciano passare rivoli di osceno liquame. Sono arrivato in fondo all’umanità. L’orrore è così grande che mi sveglio, perché so che dopo quella scena non esiste che la morte, come una liberazione. Ho fatto una doccia ed ho cercato di mettermi a lavorare, e quando mi sono finalmente calmato mi sono addormentato con la testa sul tavolo. Niente di grave, mi succede relativamente spesso. Alle nove mi ha chiamato un cliente. Mi sono alzato, mi sono lavato i capelli, ho fatto colazione. Ebbene, non so se vi è capitato mai, ma sono finito in un ciclone dell’irrealtà. Ricordate 1984, il romanzo di George Orwell sulla psicopolizia, il Paese controllato dal Grande Fratello in cui due più due fa cinque? Laggiù, se esci dal tran-tran tracciato per la tua quotidianità, vieni accusato di irrealtà ed annientato. Quando lessi il libro ero già abbastanza grande per conoscere i momenti di irrealtà. Tu fai le solite cose allo stesso modo di sempre, ma non ci sei. Non sei né triste né allegro, con un minimo di attenzione eviti di fare sbagli, ma sai benissimo che tutto ciò che vivi, vedi e fai è falso, irreale, mendace, fortemente instabile. Ho paura di questi stati, perché temo di uscire dal personaggio professionale. Finché sono tra le persone care posso dire di avere una giornata storta, ma di fronte a clienti sento che potrei combinare un guaio irreparabile – e nel passato ciò è accaduto diverse volte, con conseguenze terrificanti. Il principio (poi spiegato da Orwell in 1984 e ne La Fattoria degli Animali), é chiarissimo: se trasformiamo i fatti in opinioni (e quindi una bugia è un’opinione come le altre che le si contrappongono), tutto ciò che resta é un’ansia, una paura crescente, una rabbia cieca, l’impressione che non sia necessario capire, ma che si debba agire. Su questo principio si fondava la propaganda nazionalsocialista, ed ancora oggi dello stesso metodo si giovano moltissimi politici, da Grillo a Salvini, da Renzi a Landini. Le mie due manie contrapposte (quella di voler capire a tutti i costi fin nell’ultimo dettaglio – per sperare di vedere – e quella di dover esagerare oltre ogni limite – per sperare di essere visto) mi catapultano nell’Irrealtà, che è la maggiore caratteristica dei nostri tempi. Siamo chiusi nella centrifuga di una lavatrice insieme a “opinioni” contrastanti e abbiamo perso il metodo (e la voglia) necessari per capire, per cui bugia e verità si confondono, in una sorta di ermeneutica della bugia che è il contraltare determinista dell’epistemologia popperiana. Molte persone che conosco vivono in quella pozza. Non so come facciano. A me capita di starci per una mattina, e generalmente finisco col dare di stomaco, piangere come un vitello, ascoltare musica malinconica e smettere di essere. Un amico in un messaggio privato pensa di sfottermi affettuosamente: “A Paolé, stamo ancora ar solito topos, eh? Er personale è politico, eh?” Ci ho pensato. Sbaglia. E’ il politico a restare, per sempre, strettamente personale.

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