Tra l’albergo economico in cui passo la notte e gli uffici del LISCR, l’Ufficio del Registro della Liberia, ci sono forse 200 metri, non di più. Pochi passi, poi giri a sinistra sul grande viale, che ai miei tempi si chiamava Road Street, ed ora è stato rinominato in onore di William Tubman, che era stato Presidente della Liberia dal 1944 fino alla sua morte, nel 1971. Il viale ha solo due corsie, ma molto larghe, e ci sono tratti con un marciapiede. Da entrambi i lati della strada, oggi, ci sono edifici moderni. Ma quando ci sono andato io, alla fine degli anni 80, erano vecchie case in stile coloniale, purtroppo screpolate e gravemente ferite dalle pallottole e le cannonate. Io ci sono andato perché amo viaggiare ed amo ancora di più l’Africa. Il giornale mi paga l’hotel, ma non mi ha pagato il volo, sicché alla fine, quando avrò scritto un articolo, ci avrò perso dei soldi, ma ho bisogno di sentirmi vivo e va bene così. Alla testa della Liberia c’è Charles Taylor, un assassino che, nella vicina Sierra Leone, ha organizzato un esercito privato, chiamato RUF, che compie stragi disumane per rubare l’oro ed altre materie prime. Una delle divisioni del RUF è costituita da bambini soldato, rapiti dai loro villaggi o venduti dai loro genitori affamati, ed un’altra da mercenari sanguinari e spietati, guidati da un aguzzino, Ibrahim Ba, che è anche responsabile per l’acquisto delle armi. Un ufficiale dei servizi segreti italiani, Valerio Pugliese, che voleva vendergli roba dismessa dall’Esercito Italiano e rubata in qualche deposito andò a trovarlo con la moglie. Ba fece lo scemo con la signora Pugliese che, innervosita, aveva riso istericamente, ma non si era difesa, e Pugliese non aveva reagito. Ba disse: questa è solo una puttana. E le sparò in testa. Pugliese, da allora, è in manicomio, non è più riuscito a tornare alla normalità. Magari è morto, ed io non l’ho saputo. Potrebbe essere. Ma io sono giovane e scemo, e non ci ho pensato. Ho guardato sulla carta quanto fosse lontano il confine della Sierra Leone, ho letto un paio di articoli della stampa americana, e mi sono convinto che Monrovia sia lontanissima dal teatro della guerra. Penso solo che non ci sono altri giornalisti che sono andati fin quaggiù, come ho fatto io, ed avrò una storia che nessun altro sarebbe capace di scrivere. Perciò prendo un quaderno, due penne a biro, il mio buon umore incosciente ed una bottiglia di plastica del latte, riempita d’acqua, e vado. Quando giro a sinistra mi accorgo che in strada non c’è nessuno, e mi pare strano, perché sono in una delle strade principali della città, a pochi metri dal lungomare. Ma non c’è nessuno. Solo due cani randagi, con la coda e la testa bassa, che non hanno nessuna voglia di litigare con me. Ricordo distintamente la canzone che ho in mente mentre cammino, perché il silenzio mi rende insicuro. Poi sento la strada tremare, leggermente. Giro la testa verso destra e vedo arrivare due jeep, piene di soldati, con il volto che hanno i militari quando non hanno più nemmeno un briciolo di umanità, ma sono solo colonne di indifferenza. Improvvisamente ridono, indicano dalla mia parte ed iniziano a sparare. Un suono che non conoscevo. Non mi rendo conto di nulla. Solo dopo mi accorgerò che sono caduto in ginocchio e mi sono pisciato addosso. Tutto va troppo veloce, non sono in grado di fare nulla, il cervello non mi dà alcuna istruzione. Se avessero sparato nella mia direzione, mi avrebbero dilaniato. Invece sparano ai cani, e li macellano di pallottole. Poi passano e vanno avanti, verso sud. I cani non sono rossi di sangue, ma neri e blu. Io non posso camminare, sono stremato dal terrore. Un signore compare per miracolo, attraversa la strada, mi aiuta a rialzarmi. Torno in albergo. La sera stessa torno in Europa, senza bottino. Ebbene? Ebbene niente. Era il 24 marzo 1994, esattamente 25 anni fa. Non sono morto, e non è merito mio. Ma quei pochissimi secondi li sogno spesso, e mi sveglio spaventato. Questi 25 anni mi sono stati regalati dal caso, ma non voglio aggiungere frasi patetiche sul senso della vita. Vorrei solo dire agli schifosi cinici, ai cani rabbiosi, a coloro che confondono volutamente immigrazione, integrazione e paura di morire, a Mario Giordano (il peggiore), a Matteo Salvini, ed ai suoi complici (Giggino Di Maio e Peppe Conte), che chi muore non è né migliore né peggiore di chiunque di noi. Chi scappa ha paura, e non si ha solo paura della guerra ufficiale. Monrovia era terra ufficialmente pacificata. Punire un autista dell’autobus che rapisce dei bambini, come un bianco che entra in una moschea neozelandese e compie una strage, è necessario, giusto, indirimibile. Ma ancora di più andrebbero puniti coloro che hanno la responsabilità di rendere possibile questi fatti: l’azienda dei bus che non controlla il passato dell’autista, i servizi che non raccontano alla polizia che quell’insegnante di ginnastica è armato come un cattivo dei film di Bruce Willis. I politici che sbattono sulla strada gli immigrati regolari. I politici che promettono che rimpatrieranno 600mila persone, e poi non lo fanno. I politici che indeboliscono la Polizia, che, come dimostra il bus rapito, quando agisce funziona benissimo e salva 51 vite. I politici che inneggiano all’arresto di chi salva 49 persone che stanno per affogare (senza averne il potere, sentendosi al di sopra della legge). I politici che si fanno assolvere non dai giudici, ma dai compagni di partito. I politici che fanno credere alla gente più semplice che far male a chi non può difendersi risolva il problema di coloro che invece sono pronti a far male a ciascuno di noi, o vendono droga e violenza ai nostri figli. Sopravvivere ai soldati del RUF a Monrovia è stato un caso. Permettere che Salvini, Giordano e gli altri campioni del cinismo uccidano o facciano morire degli innocenti, è una responsabilità che non voglio portarmi nella tomba. Se Dio esiste mi punirà comunque, ma tornare alla vita del medioevo, in cui l’unica difesa dal potente aguzzino è pregare, non è accettabile. SALVINI VATTENE

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