– Sono stato a vedere Alessandra Magrini in “Se questo è un operaio, viaggio nell’inferno Ilva” e, come spesso accade, ne sono tornato scombussolato. La struttura è semplice ed intelligente – uguale all’arte socialista ed al teatro operaio, per molti versi, con in più una parte televisiva su cui tornerò. Alessandra descrive la vita e la morte nella fabbrica di Taranto ed intorno ad essa: i buoni sono buoni, i cattivi sono mostruosi, qualunque concessione all’intellettualismo ed alla metafora è lasciato ad una sola scena in cui Alessandra, vestita da Cat Woman, legge dal Piano di Rinascita Nazionale della Loggia Massonica P2 e poi balla sulle note di “Tanti auguri” di Raffaella Carrà. L’effetto straniante è grottesco, perché l’operaia goffa si trasforma in una gatta veramente sexy, aumentando il senso di colpa di noi uomini che guardiamo e, durante tutto lo spettacolo, saltando dalle immagini di dimostrazioni del G8 di Genova e in strada a Roma nel 1977, sentiamo crescere la consapevolezza della nostra assenza, della nostra latitanza, di non aver preso fino in fondo in mano la responsabilità che ci competeva ed ancora compete. Qui tutto è semplificato, ogni gesto è portato all’essenza, alla meccanicità. La rappresentante della legge interna alla fabbrica ha un improbabile accento da tedesco di operetta, ma una maschera riuscitissima di violenza. I filmati tratti dalle vecchie famose pellicole sull’annullamento della personalità in fabbrica, più i cartoon alla Pink Floyd, suggeriscono ancora l’esigenza di cancellare ogni metafora, di dire dritto per dritto, ad un pubblico non smaliziato. Il percorso che lo spettatore è chiamato a compiere non è tanto estetico, ma fatalmente politico. Le parole degli operai cui Alessandra dà voce sono da documentario, strazianti, mai mediati. E finisce così, senza plot, perché il plot sei tu che guardi quanto te ne torni a casa: Alessandra, in tuta da operaio dell’Ilva, che dopo aver raccolto l’applauso guarda al cielo e mostra il pugno sollevato, ci richiama appunto a noi stessi. Dove siamo, ora che ce ne sarebbe urgente bisogno? Dove eravamo tutti questi anni? Perché abbiamo lasciato che tanta gente morisse di tortura, di altoforno, di ignoranza, di cattiveria? Come é possibile che abbiamo lasciato in funzione per 60 anni una fabbrica che da sola produce un quarto di tutta la diossina sparsa nell’aria di tutta l’Europa, un terzo del mercurio che inquina ed uccide il Mediterraneo, una macchina di morte da 1200 tumori all’anno? Lì Alessandra Magrini si dimostra molto più che coscienza politica, ma vera attrice. Non attrice contro, come lei si definisce, ma attrice pro. Una giovane donna, un meraviglioso e consapevole fascio di nervi con certezze, ambizioni, obiettivi, una direzione già intrapresa senza aspettare che noi ci svegliassimo. Nel bel mezzo di una festa di partito spenta e matusalemitica, l’attrice e la donna strapazzano la sala senza gridare, usando frasi semplicissime, senza costruzioni apodittiche. No no, non é teatro di denuncia, ma denuncia teatrale – come in un’autocoscienza collettiva Alessandra ci restituisce una possibilitá di noi stessi cui avevamo rinunciato. Un’estetica del gesto (l’attrice) e della sostanza politica (la donna). Con gli occhi gonfi ed il cuore pieno di rispetto, mi sono alzato per abbracciarla e dentro di me ho pensato ciò che non si può più dire, perché il senso di certe parole è stato troppo stravolto, ma è ancora dentro di me: compagno Fusi, presente. Con tutti i distinguo, le paure, le cerebralità, l’esperienza della vecchiaia, la consapevolezza dell’irrepetibilità, della necessità di trovare una strada più efficiente. Ma qualunque cosa il mio cervello inventi come scusa, per stasera almeno, torno sempre qui, e scusatemi per questo. Il personale è politico. Almeno per una notte non vigliacca. Compagno Fusi, presente. Grazie Alessandra.
Lascia un commento