– Un anno fa oggi, stroncato dal cancro, moriva un amico, Roberto Morinini. Non lo vedevo da molto tempo, per cui la notizia mi aveva raggiunto tardi, più di una settimana dopo. Per questo motivo ne scrivo soltanto oggi. Divenne un amico perché, quando iniziai a scrivere di calcio e lui era il giovanissimo allenatore del FC Locarno, io mi entusiasmai per la cavalcata con cui sfiorò la promozione – avendo in mano sostanzialmente una squadra di giocatori non eccelsi ed un senatore, Paul Schönwetter, che come Willy Gorter a Lugano aveva sprecato gli anni migliori di una classe cristallina nel club sbagliato e, prima di incontrare Morinini, si era praticamente spento. Allora i procuratori creavano simili disastri, e la tua carriera era fregata. Mi entusiasmai per come trattava i calciatori, per come riuscisse a dare loro del Lei ed a farli sentire stimati e degni di affetto. E mi aiutò, perché invece di mandarni a quel paese per articoli scritti senza capire la partita, ogni tanto si metteva lì a spiegarmi cose che non avevo capito sui movimenti, i tagli, le ripartenze. Guardando le mani di Roberto ed i suoi occhi neri spalancati, un pareggio a reti bianche diventava un magico racconto di scontri fra druidi, in cui creature alate (chi si ricorda del mitico Omini? O del primo gol in carriera di Olivier Neuville, con la mano, a Baden, contro il mio buon amico Peter Mäder?) volteggiavano in un carosello medievale in cui persino il marmoreo giudice Giani pareva trasformato in Armando Picchi. E’ stato il primo ticinese cui ho sentito criticare il Ticino con amore e lo sguardo tagliente di un intellettuale europeo. Dopo di lui ho conosciuto naturalmente persone di grande spessore, ma nessuno, in quegli anni difficili di praticantato e con il mio matrimonio in crisi, aveva tanto tempo da dedicarmi, sorrisi complici. In Ticino o in compagnia di ticinesi mi sono spesso sentito un intruso, un nemico, un pària. Roberto Morinini leggeva libri, discuteva di politica (con la prudenza apotropaica propria di ogni ticinese), chiedeva interessato l’opinione altrui, rispettava chiunque, rideva allegro nelle sconfitte, prendeva tutto con una serietà assoluta dal punto di vista professionale e segretamente giocoso dal punto di vista umano. Alcuni anni più tardi andai a trovare lui e il FC Lugano in ritiro a Roma. Era all’apice della carriera. Mi disse che non era stupito, era troppo impegnato a capire ed imparare, “lo stupore presuppone un pregiudizio”, mi disse, “non permettertelo mai”. Ma era felice. La sua Svizzera, la sua Europa, il suo calcio erano quelli della speranza di un mondo nuovo di espansione, empatia, tolleranza, saggezza, curiosità, allegria, rispetto. Diceva che “per ogni politico ticinese o di qualunque altro Paese che umilia la sua gente nascono mille ragazzi che, umiliata l’intelligenza, si salvano con il romanticismo – ed il calcio può essere la sintesi fra intelligenza e sentimento”. Era sempre tranquillo, anche quando non era più sereno. Dopo il cosidetto suicidio di Helios Jermini anche lui dovette ammettere che le speranze che la nostra generazione di europei aveva riposto nella fine della Guerra Fredda fosse stato stolto, improvvido. Il calcio svizzero non era più lo stesso. Mi parlò con fatica estrema di Avellino, poi gli ultimi anni erano stati uno stillicidio. “Non tengo mai la bocca chiusa, nemmeno quando taccio”, mi aveva detto una volta. Ma che io mi ricordi non ha mai detto una sola parola cattiva su nessuno. Se necessario faceva un sorriso sghembo, allargando le braccia, o diceva una battuta. Mi ha insegnato la calma, la disciplina, l’applicazione, ad astrarmi da chi mi grida intorno per concentrarmi sull’essenziale di ciò che devo fare. Quando salvò il Bellinzona dopo una cavalcata quasi impossibile, mi dissi: è ancora lui. Quello che quando gli chiesero quali sarebbero stati i giocatori giusti per il Locarno disse: “quelli che ho, perché sono uomini. Di calciatori non mi interesso”. Sono già passati tre anni, sembra ieri… Di Roberto non resta nemmeno il profilo wikipedia in italiano, i ticinesi non l’amavano. Mi viene da dire che i ticinesi non amano nessuno, seguono come segugi ciechi il mastino che odora di sangue, ma non apprezzano la pacatezza o la saggezza. Di Roberto restano quindi le righe di rispetto e cordoglio della stampa svizzera tedesca, ma alla fine, che importa? Restano i ricordi di chi gli voleva bene. Nel mio piccolissimo, e senza voler disturbare chi lo conosceva meglio e lo piange con più dolore, mi pare che il mondo senza di lui sia ancora più vuoto e più vano. Roberto, non il calciatore, non l’allenatore, non il ticinese, l’uomo.
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