– Ho letto in 36 ore “La ricchezza” di Marco Montemarano (Neri Pozza, 2013) perché non c’era niente da fare, era necessario. Questo libro infatti esce adesso solo per causa mia, il Sig. Montemarano, che non conosco, dev’essere stato fulminato dal mio angelo custode e costretto a vergare oltre 200 pagine di storia per rispondere ad una delle domande che più mi assillano da mesi: cosa succede se, passati i 50 anni, si è ancora in corsa, ma non si sa più quale sia il Gran Premio? I miei ricordi mi dicono che alla mia età i miei genitori ed i miei nonni avevano fatto abbastanza per poter acquisire il diritto ad invecchiare. Chi era riuscito a costruire una famiglia, nel bene e nel male, se la è tenuta fino alla fine. Chi invece aveva lottato tenacemente per costringersi alla solitudine, poteva dire con orgoglio di aver raggiunto almeno questo traguardo. E noi? Noi che avremmo potuto fare tutto e che abbiamo fatto moltissimo. ma non basta mai, e che viviamo in sincronia folle passato, presente e futuro? “La ricchezza” è un bellissimo libro perché costruisce in modo straordinario la domanda di cui sopra, seppur fra mille inciampi di stile e di “continuity”, probabilmente perché gli editor di oggi se ne fregano dei difetti dei libri. “La ricchezza” non è un capolavoro perché, nel momento in cui cerca di rispondere alla domanda, oltre alla sacrosante e stupendamente vera frase finale (“la mia vita non esiste”), si incasina, rotola, costruisce un bel capitolo sulla segretaria giovane e carina che salva la sua carriera ma non trova il bandolo della matassa, lasciandomi non a bocca asciutta, ma senza speranza – ed infatti mi ha gettato in una delle mie crisi di sconforto, durante le quali, se il frigo è vuoto, rosicchio gli angoli dei mobili e lecco l’olio dagli scarponi invernali. “La ricchezza” rompe un tabù per me fondamentale: mette in discussione il ricordo. Ci sono successe talmente tante cose, che non si è più precisi. tanto più che ognuno di questi fatti è fondamentale, indirimibile, e noi lo pasticciamo con esagerazioni, proiezioni, determinismi, interpretazioni, fino a quando costruiamo un ricordo falso per un sentimento vero. Perché quel sentimento é talmente doloroso ed ingestibile da necessitare dei fatti epici per giustificarlo. Maddalena è l’amore che non abbiamo mai avuto, che non abbiamo adesso ed abbiamo sempre saputo che non avremo mai. Fabrizio è la forza tremenda della vita che si autodistrugge di cui abbiamo sempre paura e che abbiamo sempre assaggiato solo a morsi piccolissimi e titubanti. Mario è la solitudine cui siamo condannati dal non essere competitivi come il mondo ci vuole avere. La ricchezza è quando queste tre forze, in Argentina, tornano a stare insieme – ma senza di me, io resto condannato per l’eternità non solo alla solitudine più totale ed efferata, ma anche alla lontananza da me stesso, dal mio passato vero e dai miei dolori idealizzati. Per questo motivo leggete il libro. Se non ci trovate nulla, meglio per voi, ma non chiamatemi mai, perché siete tra coloro che consumano la mia energia, deuteragonisti dell’epos, comparse già scomparse. Se vi sconvolge, come ha sconvolto me, vi chiederete: perché sono così? Perché coloro che sono così non vivono insieme in uno zoo o in una riserva indiana? La risposta, credo, l’ho trovata nell’ultimo racconto di Santo Piazzese, “Blues di Mezz’Autunno” (Sellerio, 2013): la Spada dei Turchi, isola infintesimale della Sicilia. Se entro l’anno prossimo non trovo un vero equilibrio interiore per affrontare la voragine di solitudine che mi attende, potrete probabilmente trovarmi là, al Bar Edelweiss…

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