1° settembre 2014 – CRONACHE DI BURU BURU – GIORNO 22, LUNEDÌ
Niente truculing, oggi. Pioggia a secchi, a vagoni, a piscinate. I mostri che di regola dovrebbero stare in giro ed impestare la città si nascondono in qualunque posto ci sia da mangiare. Viva l’Italia, dove anche l’opera d’arte più importante o la rappresentazione più fondamentale la si “vende” solo se si mangia, che i nostri concittadini non spendono per cose futili come cultura, istruzione, lettura, ma per cibo, cibo, cibo – e naturalmente il cellulare di ultima generazione. Truppe di truzzi scatenati hanno inondato anche la nostra struttura vociando, stupidando, sbriciolando farine, ciancicando proteine, attorniati da bambini che corrono in cerchio isterici come indiani che assaltano la carovana. I miei nervi sono già al limite quando si presentano gli ultimi rappresentanti della badilata di ospiti di questa settimana. Mi piace citare soprattutto una famiglia di cafoni pescaresi (lui, lei che non gli parla perché lui mette di nascosto il sale nelle pietanze, la sorella di lui che parla solo di cibo e trasmissioni televisive sul cibo, il marito di costei, che quando non tace balbetta frasi futuriste che non conoscono lo schema soggetto – verbo – complemento oggetto, che evidentemente risulta troppo noioso (o incomprensibile) al truculo. Con loro una coppia lombarda, lei che ride sguaiatamente di qualunque cosa, lui che guarda le terapeute con occhio bovino e leccandosi bavosamente le labbra ed i baffetti da gigolò messicano. Scopro a cena che si tratta di due squadre di campioni di una variante speciale e complicatissima del truculing, che negli ambienti sportivi viene chiamata meschining. Le cose orribili che questa gente ha ripetuto a tavola non fanno ridere, ma spaventano. L’ignoranza abissale, l’arroganza (Silvano Stipcevich, avevi ragione tu!), l’invidia, la volgarità, il razzismo, la superficialità, il sessismo – dei veri campioni. Quindi cerco di filarmela il più presto possibile. Durante il trattamento regna un silenzio divertito. Qualcuno sa della mia scorribanda di ieri notte, gli altri sono coinvolti dall’atmosfera generale. Ecco i fatti: ho aspettato che fosse tardi abbastanza ed ho scalato la rampa. Porta chiusa. Ma mi è venuta una grande idea. Se gli omoni venivano dalla parte opposta del corridoio, questo vuol dire che altrove esiste un’altra rampa di scale. Quindi percorro il corridoio e passo accanto al Giardino del Silenzio – un lato della terrazza tanto amata dal club delle gianduiotte in cui gli ospiti pregano una divinità sconosciuta perché, una volta dimagriti con tanta sofferenza, diano loro il dono dell’acchiappanza. Dietro quel Giardino non c’ero mai stato, ho scoperto che è pieno di cicche fumate di nascosto da chissà chi. C’è una porticina di legno, pensavo che fosse un ripostiglio, ed invece è l’entrata di un corridoio di circa dieci metri che finisce in una scala. Salgo vorrei dire precipitosamente, ma sarebbe una bugia, ma sculettando come un babbuino. La porta è aperta. Raggiungo l’ascensore segreto, pigio, scendo per un’eternità, poi arrivo all’hangar e, col cuore in gola, mi affaccio sull’immenso spazio sotterraneo. Urca. Me lo ricordavo vuoto e buio, invece è pieno di luce e di macchine. Niente macchine spaziali, niente UFO, nessuna tecnologia aliena. Conto dodici autobus, quattro spalaneve, quattro camion dei pompieri, due carri attrezzi, un’autoclave ed un’autocisterna. Nulla che possa volare. Fine delle mie illusioni. Oppure no. Da dietro gli autobus sento nuovamente venire quel bzzzzz arcano e spaventoso. Il ronzio viene da dietro una nuova porta. Ancora una porta, vivo in una serie di scatole cinesi. Una metafora della mia dieta: in tre settimane hanno fatto uscire un fusotto da quel fusone che ero e mi hanno insegnato una prospettiva possibile per far uscire, di volta in volta, fusettini sempre più cicibottici e minuscoli e smilzi dagli enormi container che mi difendevano dalle mie insicurezze. Der Weg ist das Ziel. Il solo obiettivo possibile è andare nella sua direzione. Il viaggio è la meta. Mentre sono impegnato in tali riflessioni esistenziali, sento un abbaiare furioso venire da un punto indistinto dell’enorme hangar. Miracolosamente riscopro il vero senso della parola “precipitosamente”. Dal rumore non si tratta di un cane, ma di una muta di almeno cinquecento orchi bestiali. Torno indietro. Indietro? Qui ci sono miliardi di porte tutte uguali… quale sarà quella da cui sono venuto? Giro dietro il bus e vedo alcune dozzine di cani pronti a saltarmi addosso. Con un salto mi metto a correre (vabbé, caracollare o quasi rotolare) nella direzione opposta. Una, due, tre, quattro porte, tutte chiuse. Si assomigliano tutte. Una finalmente si apre, ma dietro c’è solo uno sgabuzzino. I cani incombono. Accanto alla porta c’è uno sportello. Lo apro, mi arrampico, mi metto seduto. I cani sono sotto di me ed abbaiano, ma non possono raggiungermi. Sono al sicuro? Ma come torno in camera mia? Dei passi sempre più vicini. I due omoni. I cani si calmano. Mi guardano perplessi: “Vieni via da lì”. Ora mi uccidono. Dietro di me sento un rumore scrosciante, crescente, roboante. Poi, l’inferno. So solo che vengo catapultato fuori dallo sportello e sbatto la testa e il sedere contro la terra, poi sono avvolto nel bianco. Un paio di secondi, poi mi accorgo che sono sepolto. Da lontanissimo gli omoni ridono, ridono, ridono, non la smettono più. Insomma sono stato travolto dai panni sporchi di tutto l’albergo che erano stati infilato in uno scivolo e mi sono piovuti addosso. Mezz’ora dopo gli omoni mi depositano graziosamente in stanza. Da quando mi hanno raccolto nel fitto della bailamme di panni sporchi non hanno praticamente mai smesso di ridere. Sono la barzelletta del Monte Titano.
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