6 settembre 2014 – CRONACHE DI BURU BURU – GIORNO 27, SABATO
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Mentre sul drone di Sophia Loren calavano le prime nebbie del Titano, mi sono avviato con un taxi fino all’aeroporto di Rimini per prendere l’auto a noleggio che – in due giorni di girovagare per l’Italia – mi riporterà a Roma. Come dice mio fratello Carlo , il mio nome è Bond, Vaga Bond. L’aeroporto di Miramare di Rimini, intitolato a Fellini (il cui cadavere per questo motivo gira come un’elica nella tomba) è una scalcinata costruzione in cartone pressato con tutte le scritte in russo. Niente scherzi. Da Rimini (Ryminsk?) si va in volo diretto in 26 città dell’ex Unione Sovietica. E basta. Naturalmente gli aerei tornano pieni di coloro che, per limiti di età, non stanno invadendo l’Ucraina ed erano ai bei tempi ancora troppo giovani per invadere l’Afghanistan. Al bar almeno sono bilingui, ma non appena cerco di comprare una ricarica per il mio cellulare mi pare chiaro che qui si riesce a concludere una fila solo essendo in grado di citare a memoria Maximilian Gorkij, Leo Tolstoj, TaTu ed Alla Pugačëva (ti ricordi, Eric?). Quindi niente ricarica. Il viaggio di ritorno, da solo nel traffico, mi crea una sensazione di disagio. Allora è così che si sentono i carcerati quando dopo un’eternità escono di galera: non vedo l’ora di ritornare in albergo e chiudermi nei 16 metri quadri della mia cameretta. La tentazione di mangiare qualunque cosa in qualunque posto già mi divora, mi rendo conto che la prossima settimana sarà durissima. Il risultato finale delle quattro settimane è di aver perso 18 chili e di aver sfinato i polpacci di 9 centimetri. La mia pressione è 75 su 130, quindi va tutto benissimo. Ho ricevuto una nuova dieta, appare quasi praticabile, sicuramente è meno dura di quella che ho seguito in questo interminabile mese a Buru Buru. Ho fatto un giro per le stanze, ho preso congedo dal mio recente passato, ma delle splendide persone che mi hanno accompagnato in questo viaggio non c’è più nessuno. A cena si danno da fare per lasciarmi un ricordo imperituro: tamponi al sangue di mirtillo, bucce di banana in salsa piccante, culetto di barboncino trifolato con ancora i peli originali, anche se un po’ bruciacchiati. Dopo cena faccio ancora un giro, al buio, per le strade in cui ho vissuto tante avventure – ed ancora di più ne ho sognate (cantò Antonio Mercuri mille anni fa). Federica Polegri scrive che sono un depressivo cronico. Mah. Mi sembra piuttosto di essere un romantico esaggerone, ma vattelappesca, tutto è possibile ed al contempo irrilevante. Come alcuni di voi già sanno, di fronte alla questione del bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno, la mia posizione è chiarissima: l’importante è il bicchiere, sono felice che esista il bicchiere. Lo stesso vale per la trave e la pagliuzza che alloggiano nei nostri occhi. Mi basta che ci sia l’occhio. Come sempre ragionare mi porta male. Me ne sto lì, quieto come una lucertola al sole, a riflettere sul senso della vita, quando dal fianco della collina esce una violenta lama di luce. Mi alzo e mi appoggio con entrambe le mani ai finestroni. Pochi secondi, ed ecco che succede ancora. Un lampo, un qualcosa di velocissimo che saetta in direzione del cielo. Accidenti, stavano per fregarmi. Corro all’ascensore, salgo al terzo piano. Sto sudando per l’eccitazione. Salgo la rampa di scale, la porta è chiusa. Torno giù, quasi mi ammazzo per raggiungere la terrazza, il Giardino del Silenzio, il teatro delle ostentazioni delle gianduiotte (accidenti, non mi mancano nemmeno un po’). Apro la porta delle cicche, salgo le scale, sono nel corridoio. Chiamo l’ascensore segreto, pleng pleng, si apre. Pigio il bottone per scendere. Sembra che non si arrivi mai, tamburello nervoso sui mancorrenti. Pluff. Siamo giù, si aprono le porte. Wooooooow. Davanti a me l’hangar è illuminato a giorno. Niente bus o altre sciocchezze del genere. Dischi volanti, degli stupendi meravigliosi straordinari dischi volanti. Un uomo mi viene incontro sorridente. Un uomo biondo sulla quarantina. Mi saluta per nome, lo guardo con perplessità: “Il mio nome è Orient. Luc Orient. E stiamo partendo per Terango”. Lo amo. Allora è tutto vero, non avevo avuto le traveggole. Non torno a Roma, non ingrasserò mai più. Andrò su Terango con gli uomini più coraggiosi della terra e combatteremo contro i diavoli di Xhorramango insieme a Lec-Ho e Sazh-Ho. Incontrerò una donna verde e gialla e farò figli fucsia su un pianeta scaldato da tre soli. Arrivederci a tutti coloro che hanno seguito queste righe, mi avete fatto compagnia. Finalmente, in lontananza, vedo una grande luce che si avvicina. La mia pubertà. Ci siamo.
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