Mio padre. Nato nel 1931, bambino da allora (nonostante una lunga fase in cui ha cercato di assumersi responsabilità molto più grandi della sua ombra, credendosi quindi giusto su molto più che un metro di terra). Mio padre, Marcello Fusi, il sorriso di un ragazzino caparbio e mariuolo, che è corso dietro ad un aquilone che non è atterrato mai, che non atterra ancora. Che ha trascinato noi tutti in quella corsa disperata e senza fine, spesso perdendoci per la nostra lentezza, per quella sua qualità di non mollare nemmeno quando lo tradivano coloro che credeva fossero suo padre, i suoi fratelli di corsa, i suoi propri muscoli. Un impiccione che si fà i fatti di tutti perché, come ha insegnato a noi, i propri fanno troppa paura. Sempre troppo giovane e forte e ambizioso ed appassionato per poter mai diventare saggio. Un’intelligenza a volte quasi sovrumana, una volontà più forte di ogni cosa, ed al contempo una fragilità tale – e nascosta talmente – da renderlo invisibile a quasi tutti. Padre per centinaia di ragazzi che non ne avevano, ma non abbastanza per i propri veri figli, perché ha cercato di amare senza che gli fosse mai stato spiegato come si facesse. Autodidatta di tutto, chi ce l’ha con lui è proprio per questo – tutto ciò che sa, giusto o sbagliato, lo sa fisicamente, e va ancora oggi ad una velocità che gli altri nemmeno immaginano. Mio padre, bello e tenero come quel ragazzino che portava le arance in bicicletta e guardava in un futuro inimmaginabile. Senza di lui non ci sarei. L’ho rincorso per sempre, non l’ho raggiunto mai, perché mi ha permesso di correre là dove lui non era mai riuscito ad arrivare. Mio padre. Il mio orgoglio di figlio, ciò che mi spiega al di là delle parole, che ignora ogni errore, ogni incapacità, ogni delusione, e continua a dire: vinci te stesso. Come fa lui, con tutti i suoi limiti, ancora adesso. Perché la vita, come dice lui, è semplice.

Lascia un commento