Adoro tutto ciò che è stato scritto da Somerset Maugham, e finché Adelphi non ha cominciato a pubblicare una serie di nuove traduzioni della sua opera completa, pensavo di aver letto tutto. Invece no, mi mancava “Theatre”, del 1936, impropriamente tradotto in “La diva Julia”. Ne sono uscito deliziato e pensoso, e vorrei raccomandarvelo caldamente. Non so se siete pratici dell’autore, che a mio parere è uno dei più grandi scrittori di sempre, e non solo per l’ironia che sfiora continuamente il sarcasmo, ma per la sua abilità incredibile nel descrivere i personaggi, la magia del mondo di cui parla, che ovviamente non esiste più, ma spiegato in modo che risaltino i caratteri universali di persone che esistono tuttora. Cambia la scenografia, ma i plot sono sempre gli stessi. Gli esseri umani, alla fin fine, sono sempre uguali. “Theatre” racconta uno spaccato della vita di una (fittizia) più grande attrice di teatro d’Inghilterra, Julia Lambert. Ne racconta il fatto che tutta la sua vita sia apparentemente una recita, ma in modo da poter vedere sempre cosa lei pensi, in ogni momento, in ogni situazione. Intorno a lei c’è un vortice dii persone che conosco fin troppo bene, perché io stesso ho recitato diverse parti in quella costellazione: a) il marito, che è al contempo sciocco, vanesio, sparagnino e quasi asessuato, ma che alla fine ha un rispetto, un’efficienza ed una lealtà per Julia, senza cui lei morirebbe; b) un ammiratore più vecchio di lei (“uno di quegli uomini cavallereschi, che le donne si rigirano come vogliono e non hanno il coraggio di pretendere nulla”), che per un quarto di secolo resta l’unico vero amico che lei abbia, perché la conosce davvero e l’accetta come è – tant’è che quando lei, a quasi cinquant’anni, per vanità ferita, decide di andarci a letto, lui dice di no; c) un amante giovanissimo, sciocco e volgare, di cui lei si innamora per quanto lo disprezza (e perché lui, primo fra tutti, praticamente la stupra, ignorando i suoi “no”), e da cui viene piantata per una sciacquetta; d) una cameriera rozza, volgare, che rappresenta una parte vera di Julia; e) un figlio, Roger, che se ne va di casa in cerca di “realtà” e che, in una scena perfetta, spiega a sua madre perché non riesca a considerarla veramente adulta e creda che lei non abbia affetto che per sé stessa. Somerset Maugham, quando giudica, lo fa in modo mirabile, perché giudica sé giudicante, prendendosi in giro, spiegando perché lui stesso (l’io narrante) sia perduto nelle proprie debolezze, pregiudizi, snobismo, invidia, solitudine. Quindi ogni contraddizione è mostrata come tale, nella sua duplicità, o poliedricità. Nulla è univoco, come la realtà. Roger, il figlio, non lo sa ancora. Tutti coloro che Julia ha intorno mancano dell’intelligenza necessaria per capirlo. E nella scena finale, nel trionfo di Julia, lei va da sola al ristorante e mangia in una sera tutto ciò cui ha rinunciato per 50 anni per poter salvaguardare la propria bellezza, perché è cosciente del fatto di aver appena raggiunto la perfezione, e che quella sera sia l’apice di tutta la sua vita. Cosa ha fatto? Ha avuto successo a teatro? Quello lo ha sempre avuto. No, ha avuto, per un momento solo, unico ed irripetibile, una vittoria sull’ineluttabilità della vita, contro la giovinezza, l’onestà e la meschinità, la vigliaccheria e l’opportunismo, la morale e la bontà, la lealtà e l’amore. Ha schiaffeggiato tutto questo in una notte epica. Tra le altre cose, ha cancellato in modo trionfale la sua avversaria in amore (vanità?), per poi rifiutarsi all’amante, usando non il suo potere, ma comprando l’onorabilità di tutti, scoperchiando una società in cui, per pochi soldi (o per merci paragonabili, come fama e accesso al jet-set), chiunque è pronto a perdere tutto: dignità, amore, autostima, salute, reputazione. Dando un palcoscenico alla volgarità e pochezza altrui. Mostrandosi come paragone, abbacinando tutto e tutti. E questo nel momento in cui si è dolorosamente dovuta accorgere che tutti coloro che lei credeva di controllare, in realtà la controllano. Un’altra delle contraddizioni inesauribili della vita, che pochissimi vedono e capiscono. Julia è una leonessa moderna, capricciosa perché incapace di felicità, talmente sola da divenire necessariamente egotica, talmente sola da travalicare la superbia e la cattiveria ed arrivare alla generosità aristocratica di chi disprezza tutti, sé stessa per prima. Oggi ci sono molte donne così, che gestiscono le proprie insicurezze e vivono malissimo le proprie contraddizioni – e che, per questo, si perdono dietro uomini da nulla, gente stupida, piagnona, infantile, a volte anche volgare. Ma questo accade perché queste donne hanno raggiunto una modernità che i maschi, che sono sempre indietro. non hanno visto nemmeno in cartolina. Non è vero che non ci sono più veri uomini. Non ce ne sono mai stati, stanno ancora arrancando a cercare di capire cosa fare, e piagnucolano, chiedono aiuto, conferme, mamme. Vogliono che il mondo formale vinca contro il mondo dinamico, e cercano di evirare le donne che concedono loro sé stesse, cercando di incatenarle con la propria debolezza, i sensi di colpa, la retorica formale. Somerset Maugham ha scavalcato questa trincea già cento anni fa. Io stesso, coglione che sono, comincio solo adesso a capire. Probabilmente troppo tardi. Quando Julia, oramai, mi tratta con condiscendenza e mi chiama solo quando ha bisogno (sto parlando in senso ideale, non di una persona in particolare, per fortuna). Mi salva solo il fatto di non essere capace di vivere nel mondo formale, e di vedere il mondo da una prospettiva dinamica, contraddittoria, mai statica. C’è molto di Julia, in me, nel mio lato femminile. Al contrario di lei, però, quando uso il denaro (come lei) per umiliare, non vado a farmi una scorpacciata, anzi. Di colpo, almeno per un po’, smetto di avere fame e sono placato.

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