– Vedo Francesco Guccini, gli occhi gonfi di emozione, ad un millimetro dalle lacrime, salutare tutti dalla trasmissione di Fazio. L’ultima Thule, dice, è l’ultimo disco. Non è un caso che a celebrare questo ennesimo funerale ci sia Fazio, che già era lì a ricordare Fabrizio De André e Giorgio Gaber. “Ma non è di questo che si vuol parlare, ma piuttosto del cuore…”, perché io resto qui, nudo e solo, a sopportare questo stillicidio. La mia generazione non solo ha perso, come cantava Giorgio nelle ultime ore del suo male, la mia generazione sta sopportando l’imbarbarimento, lo schifo, la volgarità, la paura, lo sconcerto, la solitudine, mentre ad uno ad uno se ne vanno tutti… tutti… e ci lasciano ancora più soli, più vuoti, più disperati. Le canzoni di Guccini, Gaber e De André sono state l’epicentro di migliaia di esistenze appassionate, il sogno di un riscatto non eroico, ma umano, quotidiano, sofferto, incespicato più che marciato. Come si può vivere in un Paese in cui gli attuali mostri orrendi della politica, dell’incultura, della televisione, del giornalismo, dello sport petulano tronfi e l’Italia artigiana della speranza, dell’amore, della libertà, dell’uguaglianza, della solidarietà, dell’intelligenza, di quella religione del dubbio che abbiamo da sempre professato e che oggi è dimenticata e disprezzata, cede… un frammento alla volta, alla vecchiaia, alla stanchezza, al silenzio. Caro Francesco Guccini, noi non ci incontreremo mai. Al Gianicolo, nel 1977, ero al concerto con mio fratello Fabio, 8 anni, sulle mie spalle, ed ero io a gonfiarmi gli occhi di commozione al grido di “una locomotiva, come una cosa viva, lanciata bomba contro l’ingiustizia”. Io c’ero anche a quello che è stato il tuo ultimo concerto a Roma, con Francesco Piccioni, e migliaia di ragazzini ballavano e cantavano in coro. E non mi sentivo più così solo. Ma non è colpa tua. È colpa mia, nostra, che non siamo stati capaci di riempire da soli il vuoto. Da un lato perché ciò che avete scritto era così bello da intimidire. Dall’altro perché la pigrizia ti distrugge quando sei giovane, ma ti scopre annientato proprio quando avresti bisogno di tutte le tue forze. La mia vita scorre, la solitudine cresce, come la dolorosa percezione di far parte di un mondo scomparso e dover far finta, ogni mattina, di riuscire a far parte (e di combattervi) in quello di adesso. Ma questo sarà domani. Questa notte Paolo Fusi, questo ciccione patetico ed autoreferenziale, tanto per cambiare, nudo nella sua stanza di lavoro, solo come lo è stato tutta la vita, ascolta “Vorrei” e piange. Sulla strada della sua, nostra, inevitabile ultima Thule.

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