– Sono andato a vedere “Piccole donne” al Teatro Studio Uno a Torpignattara. Non era la prima volta lì, ci torno volentieri, mi piace il posto. Come la prima volta, in scena c’erano Carlotta Piraino, Laura Garofoli e Claudia Salvatore – stavolta però non impegnate in “Strappi”, ma in una tenera rilettura dei due romanzi della signora Alcott. I due personaggi principali della pièce sono l’arte di scrivere e il legame indelebile tra sorelle. Comincio dal primo, che mi è più congeniale. I cinque personaggi che appaiono sul palco sono una metafora di diversi elementi chiave dello scrivere: l’io narrante (Louise), l’io narrato cosciente (Jo), le possibilità scartate dell’io: la tragedia (Beth), l’adattamento alla società (Meg), la leziosità (Amy). Nessuna di loro appare veramente convinta di se, anzi tutte cercano nell’uomo la conferma della loro esistenza o – come fà Beth – muoiono. Frasi belle ed incisive, una recitazione fondata sulle qualitá carattersitiche delle singole attrici (Claudia Salvatore l’avevo già ammirata in “Strappi” come maschiaccio, Carlotta Piraino come piccola smorfiosa è fin troppo perfetta). Il risultato è stato sentirmi chiamato in causa in qualità di Vladislav, ovvero del convitato di pietra della piéce – ed in quanto tale non mi sento che di confermare il giudizio sul testo che avevo da lettore: la letteratura americana prima di John Steinbeck fà rabbrividire. La rappresentazione delle difficoltà scaturite dalla Guerra Civile è ancora più repellente che in “Via del Vento”, come nemmeno nella rappresentazione del comunismo reale – che aveva un suo patetico più collettivo e meno mielosamente personale. Ma naturalmente c’è un altro metatesto: le signore sul palco sono amiche nella vita reale e con la loro recitazione da caratteriste celebrano anche la loro amicizia e costruiscono proprio nella dimensione asessuata della quotidianità di una famiglia in cui persino il padre è stato bandito (per destino) dalla scena. Nel cicaleccio apparentemente fortuito ed invece pieno di frasi intelligenti e profonde c’è la parte migliore, struggente e convincente, del lavoro di queste artiste e della loro rilettura di un testo comunque difficile da trasformare in una piéce contemporanea. Il legame della sorellanza, patetico quanto vi pare, è la parte più credibile e soddisfacente, più vera, più consolatoria. In un’atmosfera costruita con arte in un contesto completamente astorico ed avulso persino dal contesto sociale originario (oramai morto e sepolto persino per Hollywood), in uno scenario quindi enucleato e quindi reso eterno, la paura di non bastare, di non farcela, di non esistere, di non essere viste ed amate, diventano nuovamente temi eterni e celebrati con bravura e pathos. Sicché non mi ha commosso la storia, ma la sua assenza. Non mi ha commosso la recitazione, ma la sua parziale assenza. Mi ha commosso il fatto che, ancora oggi, la sottile violenza del maschilismo riduce anche le donne più in gamba ad una sorta di possibile autocensura. In questo senso “Piccole donne” mi è parso un avvertimento pieno di affetto e preoccupazione a noi tutti. Per me, che ho sempre avuto difficoltà a capire le donne, un dono insperato e di cui sono davvero grato.

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